CHE CJAI…

denimjpg

Il primo giorno che lo hanno trasferito nella nostra stanza, proveniente da tutt’altro settore, privo di competenze, ma di fatto promosso a “competente” perché di grado superiore al nostro, pensammo subito che fosse un po’ strano. Ma di fatto lo si pensa di tutti i nuovi arrivati poiché con la loro presenza intaccano un equilibrio precarissimo e faticosamente raggiunto dopo anni di litigi e sofferenze. Ogni componente della stanza  ha un ruolo ben definito e malamente si tollera che arrivi un Pinco Pallino qualsiasi a rivoluzionare e capovolgere un sistema rodato da tempo, dove c’è un fratello minore, uno maggiore, un papà, una mamma, una sorella rompicoglioni, un cugino scemo,uno zio saccente,una nonna aterosclerotica; tutti ruoli già affibbiati! Insomma che ruolo dai a uno così su due piedi! Fortunatamente scoprimmo quasi subito che la situazione era meno difficile del previsto: a lui non interessavamo noi, il nostro lavoro e a noi ancor meno lui. Tra l’altro non ha mai fatto nulla per nasconderlo; decisamente poco loquace, poco simpatico, poco competente, insomma poco di tutto. Solo l’altezza -di cui va fieramente orgoglioso- lo diversifica da noi  e siccome mamma deve avergli detto che l’altezza fa mezza bellezza lui si è accontentato e ha lasciato il resto al caso, o a casa.

Pertanto, quando un giorno nella stanza risuonò l’invocazione “Che cjai…” dalla sua postazione, si generò improvvisamente curiosità e apprensione. L’invocazione somigliava molto a qualcosa tipo “Ho Chi Minh!”, nonostante in realtà fosse una frase dialettale che voleva dire “che hai…” e sottintendeva una richiesta.
Quindi, esattamente come ai tempi della scuola in cui il prof prende il registro e scorrendo i nomi dice “oggi viene…”, noi facemmo le facce beote e indifferenti, sperando che la richiesta non fosse diretta proprio a noi.
In effetti la richiesta era lanciata a tutta la comunità e il prosieguo della frase era “…’na tavoletta de legno?”. Ora, non lavorando in una falegnameria, tutti cominciammo a fantasticare sulla richiesta, fino a pensare alla possibilità dell’utilizzo per punizioni corporali nei confronti dell’impiegato che avesse sbagliato.
Da quel giorno le richieste si sono ripetute con cadenza pressoché giornaliera, sempre più astruse, del tipo “che cjai una camera d’aria?”. Come no! Tutte le mattine prima di uscire di casa infilo in borsa un pacchetto di fazzoletti e una camera d’aria, nel caso incontri un ciclista in difficoltà, così da accorrere in suo aiuto, tipo giovane marmotta e fare la mia buona azione quotidiana. “Che cjai dell’acquaragia?”. Eh no caro, quella ancora non è prevista nella dotazione della cartoleria e a tutt’oggi nessuno ha mai cominciato a spennellare le pareti dell’ufficio con disegni stile street art, colto da raptus. “Che cjai ‘na pinza? mastice? lacci da scarpe (anzi per l’esattezza per scarponi da montagna)? sellino? vernice per un ritocco alla carrozzeria della macchina? scatola di polistirolo?  piastrelle da cucina che avanzano? martello? acetone? pinzetta?  …e cavolo nun cjavete mai gnente!”
Tutto ciò potrebbe sembrare esagerato, ma vi assicuro che è tutto, o quasi, vero. A lui sembra naturale chiedere, esternare la sua esigenza primaria indipendentemente dal contesto in cui si trova. Esattamente come il bambino che esterna alla mamma la sua necessità di fare la cacca.
In quei momenti mi torna alla mente una pubblicità, il cui slogan era “per l’uomo che non deve chiedere mai”.
Pensate che se gli regalassi due o tre campioni di Denim e glieli piazzassi sulla scrivania comprenderebbe il messaggio subliminale?
E comunque adesso il problema si è posto. Che ruolo gli affibbiamo a “che cjai?!!”? Risposta assai difficile…

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#MOOD# MUSIC# TAG

mood

 

Sono stata taggata qualche giorno fa da Giovanni

https://vinvivendo.wordpress.com/2015/04/25/mood-music-tag-interessante/

che ringrazio tantissimo.

Caro amico ho avuto non poche difficoltà nella scelta dei brani.
Selezionarne solo 5  tra i tanti che hanno accompagnato la mia vita e suscitato emozioni è stata un’ardua scelta.
Quando ormai mi sembrava di aver concluso ho avuto un ripensamento.
L’altra selezione era probabilmente più giocosa, più vicina all’anima rock e zingara, ma ahimè meno realistica e rappresentativa delle mie emozioni.
Quindi mi dispiace questo “ve tocca”.

Spero non me ne vogliate e comunque citerò, come previsto, 5 blogger che inviterò a partecipare secondo le seguenti regole:

1. Per partecipare devi essere stato taggato almeno una volta.
2. Scegli almeno 5 tracce musicali (o più) che rispecchino alcune emozioni o stati d’animo al positivo.
3. Tagga almeno 5 blogger (o anche di più ) e avvisali di averli taggati.
4.Cita il blog all’interno del tuo articolo con link diretto o esteso: GHB Memories –http://www.ghbmemories.wordpress.com, scrivendo che l’idea è partita da qui.
5. Se vuoi spiega anche brevemente perché hai scelto alcune tracce piuttosto che altre.

I miei 5 brani:

I blog taggati sono:

https://mariangelatardito.wordpress.com/
http://afterfindus.com/
http://www.fmtech.it/diario/
https://guidosperandio1a.wordpress.com
https://pendolante.wordpress.comnote_musicali_3

 

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E L’AMORE GUARDÒ IL TEMPO

 

Serpente-velenoso-Full-Liviano-Orologio

Cosa è il tempo?

È solo quel ticchettio che scandisce i minuti, le ore, i giorni, i mesi, gli anni che passano o ha una definizione meno palpabile, indefinita. Qualcosa che fluidamente scorre nella nostra vita e incarna il nostro vissuto, qualcosa che serve per sottolineare le emozioni che l’accompagnano, le immagini, i pensieri, gli incontri.

Nudo-Full-Liviano-Orologio
E le tracce del tempo sono quelle visibili rughe, quei segni del cambiamento a cui ci rimanda la nostra immagine allo specchio o sono quelle invisibili cicatrici dell’anima, quelle sofferenze e quelle gioie che ci hanno accompagnato passo dopo passo e che scandiscono i nostri momenti.

Nomen-omen-Full-Liviano-Orologio

E quale è la bilancia che ci consente di valutare il significato di ciò che è stato. L’attimo in cui abbiamo vissuto una profonda emozione o gli anni a cui non sappiamo dare valore e vorremmo cancellare.

Divieto-di-fermata-Full-Liviano-Orologio

La giusta definizione è quella di cancellare il tempo o di fermare il tempo,
quello in cui abbiamo perso qualcosa o qualcuno o quello in cui abbiamo aggiunto qualcosa o qualcuno alla nostra vita.

Bacio-di-vetro-Full-Liviano-Orologio

           E L’AMORE GUARDÒ IL TEMPO E RISE

E l’amore guardò il tempo e rise,
perché sapeva di non averne bisogno.
Finse di morire per un giorno,
e di rifiorire alla sera,
senza leggi da rispettare.
Si addormentò in un angolo di cuore
per un tempo che non esisteva.
Fuggì senza allontanarsi,
ritornò senza essere partito,
il tempo moriva e lui restava.
(Luigi Pirandello)

 

 Le immagini utilizzate sono opere dell’artista Orologio Liviano  che gentilmente mi ha concesso di utilizzarle e di inserirle nel testo. Il suggerimento è di visitare il suo sito (http://www.orologioliviano.com/) e di leggere le sue didascalie.
Quello che ho scritto è ciò che intimamente hanno suggerito a me.

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IL MAGO DELLE SPEZIE

Seamless texture with spices and herbs

Ho aperto la porta del negozio e sono stata avvolta da un’inebriante folata di odori, intensi e penetranti, tanto da avvertire un leggero stordimento. In quel preciso istante tutti i sensi si sono messi in moto, decisi a partecipare a quel turbinio olfattivo. L’olfatto si è subito impegnato a seguire nell’aria quegli aromi sconosciuti. Il gusto, suo malgrado, partecipava, poiché nella gola sostava un leggero pizzicore insolito e piacevole.
La vista non poteva non compiacersi dell’intensità dei colori. Il tatto aveva trovato così elettrizzante avvertire la setosità delle polveri e la consistenza dei semi ed io ero rapita da questa miriade di sensazioni sviluppatesi così all’improvviso in quel minuscolo negozio, apparentemente innocuo, con l’unico difetto di essere intasato di barattoli e cassetti contenenti spezie e miscele.

Il proprietario è risultato fin da subito un personaggio singolare, appassionato narratore di incredibili storie e aneddoti, dispensatore di ricette e intrugli alchemici, mago e sciamano.
Un’ora è scivolata via, polverizzata dalle sue parole, come sapientemente polverizza e miscela i suoi semi, accompagnata dalla degustazione di un infuso, che al primo sorso si è rivelato un’esplosione per le papille gustative, lasciandomi esterrefatta a rigirare il bicchiere nelle mani per capire a cosa fosse dovuto quel calore avvolgente e impertinente, insinuatosi così all’improvviso da comporre schegge di colore.

Quando sono uscita mi sono guardata attorno, intimorita dall’idea di essere perquisita  e di esser trovata in possesso di una serie di pacchetti contenenti miscele non ben identificabili. D’altra parte il tempo della caccia alle streghe non è mai effettivamente finito e le streghe non sono mai definitivamente sparite.

 

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LIEBSTER AWARD

liebster-award-1Carissimi, ho ricevuto ben due nomination da due amici blogger che segue con stima e simpatia: https://vinvivendo.wordpress.com/  e  https://diariosegretodiungayrepresso.wordpress.com/

Credo di avervi già abbondantemente ammorbato con le motivazioni del mio blog. Oggi forse continuo a scrivere perché fondamentalmente mi diverto, soprattutto a leggervi.
Sono molto discontinua rispetto alla maggioranza di voi, ma quando ho tempo la sera la dedico a leggere i vostri post e spesso mi trovo ad emozionarmi, a riflettere o a ridere tantissimo.
Certo a forza di leggere alcuni blog ho sviluppato delle paranoie e comincio a chiedermi se effettivamente sia salutare continuare a seguirli. Del tipo che la scorsa settimana mentre ero in metropolitana una ragazza seduta accanto a me ha tentato con insistenza di sbirciare la copertina del libro che stavo leggendo. Ho pensato subito ad alcuni di voi che hanno “l’insana” abitudine di immortalare pendolari intenti nella lettura. Prima che le venisse il torcicollo ho alzato il libro e le ho quasi “spiaccicato” la copertina sulla faccia, posizionandomi in posa plastica, pronta allo scatto con il suo smartcoso, come lo chiama l’amica Pendolante. Non era una blogger in cerca di immagini, ma semplicemente una lettrice curiosa, che è rimasta leggermente sconcertata e sicuramente ha pensato che fossi un soggetto strano da non importunare ulteriormente.
L’altro giorno, invece, nel treno con una mia amica parlavo a voce talmente bassa, che la poveretta mi ha guardato afflitta e mi ha detto: “Perché la prossima volta non proviamo con la lingua dei segni?!” ed io imbarazzata le ho spiegato che il nemico può essere ovunque, pronto a origliare la tua conversazione e a riportarla nel suo blog! Lei mi ha guardato e mi ha detto: “Io sarò pure un po’ sorda, ma tu stai diventando leggermente scema! Ma chi frequenti ultimamente?” e io le ho spiegato che se fossi riuscita a scantonare la foto, la registrazione della conversazione, rischiavo sempre il blogger che ama descrivere dettagliatamente i personaggi incontrati casualmente e che vengono citati nei suoi racconti, quindi vivo nell’incubo di riconoscermi nella persona citata nel racconto metropolitano.

Insomma vi seguo perché mi piacete e mi piace che volta per volta si crei questa “catena umana” in cui attraverso i blog che seguo scopro altri blog, altri mondi, altre genialissime creature.

Ora mi si chiede di citare dei blog e diventa davvero difficile. Citerò, tra i blog che seguo, quelli  forse meno “frequentati” e per questo, a mio parere, da cominciare a frequentare:

http://afterfindus.com/
https://mariangelatardito.wordpress.com/
https://cerebroplasticadditiva.wordpress.com/
https://fifmblog.wordpress.com/
https://tiserveunamano.wordpress.com/
https://sarahmaria76.wordpress.com/
https://stoimparandoascrivere.wordpress.com/
https://settembreblog.wordpress.com
https://unonessunocentomilalibri.wordpress.com/
http://animater.org/

Buonissima serata a tutti!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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POCO A POCO

Ormai è consuetudine. La mattina lui l’attende. Ha un enorme zaino sulle spalle. Attende che lei attraversi la strada e le va incontro. Poi tira su la serranda della tabaccheria,
svuota il cestino, annaffia le piante, prende la bottiglietta e la riempie di acqua fresca alla fontanella. Si ferma al bar per farle preparare il caffè, scuro, bollente, come piace a lei.
Gesti gentili, dimenticati da tempo, da quando è rimasta sola e le giornate sono sembrate ostinatamente lunghe e grige. Ore interminabili ad aspettare che facesse sera per poi riprendere la metropolitana e tornare a casa. Tanto a casa non c’è nessuno ad aspettare e fare su e giù con la metro è faticoso. Ora all’ora di pranzo i contenitori del cibo sono due, “tanto preparare un po’ di pasta in più non ci vuole nulla”.
Lui non parla quasi mai, conosce poche parole di italiano. Ma le parole a volte sono inutili e scoprire la complicità in uno sguardo dà lo stesso calore di un abbraccio.
La sera, prima di andare a casa, il rituale si compie di nuovo. Lui attende che lei indossi il cappotto, spenga le luci per aiutarla ad abbassare la serranda.
Il buio divide le loro strade, ci penserà il mattino a far sì che si ricongiungano per fondere quel senso di vuoto e solitudine, per ritrovare quei gesti gentili e quei silenzi, che probabilmente in due appaiono meno pesanti.

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POCO A POCO

Poco a poco stai entrando nella mia assenza
goccia a goccia riempiendo la mia coppa vuota
là dove sono ombra non smetti di apparire
perché soltanto in te le cose si fanno reali
allontani l’assurdo e mi dai un senso
ciò che ricordo di me è quello che sei
giungo alle tue sponde come un mare invisibile

Alejandro Jodorowsky – “Solo De Amor – poesie”

 

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UN MIRAGGIO

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La navetta fa appena in tempo a parcheggiare nel cortile, che già diversi colleghi si precipitano a scendere le scalette, neanche fossimo all’aeroporto e dovessero recuperare i bagagli imbarcati. Non ha importanza che sia in anticipo o che sia arrivata “sul filo del rasoio”, l’importante è riuscire ad essere i primi a posizionarsi di fronte a quella maledetta timbratrice e fregare chi ti arranca dietro. Spesso accade che una volta timbrato sostino alcuni secondi, ostruendo il passaggio agli altri, con il naso appiccicato al display. Chiamasi presbiopia. La macchinetta segnala “timbratura avvenuta correttamente”, poi si riposiziona sulla schermata iniziale con data e ora; nonostante il naso attaccato allo schermo e gli occhi strizzati, ve ne sono alcuni che non riescono nell’intento di leggere, continuando ad osteggiare chi più o meno pazientemente è in fila. Alla fine desistono e chiedono “Scusa, che ore sono?” e a me puntualmente viene voglia di rispondere dando indicazioni sbagliate: “Sono le 8,25” per poi guardare con soddisfazione le facce sconcertate e afflitte, ma alla fine non lo faccio mai. Così assisto a questa scena Fantozziana, dove l’unica differenza dalla scena del film è la mancanza della statua della madre dell’AD e la genuflessione obbligatoria prima di entrare. Tutto ciò mi intristisce profondamente e mi fa immaginare scene futuristiche di artritici vecchietti che sgomitano e con il fiato affannato arrivano, arrancando davanti al badge, dove orgogliosamente possono strisciare il tesserino e poi mettersi in coda all’ascensore, dato che a quel punto il notevole sforzo a cui ci si è sottoposti non consentirebbe di salire a piedi le scale.

L’altra mattina sento dei passi veloci dietro di me, non mi volto neppure, mi faccio semplicemente da parte per far passare il centometrista che ho dietro e consentirgli di arrivare primo.  Invece una mano si adagia sulla mia spalla e cinicamente penso “Oddio, ha un infarto!”. A quel punto mi volto e vedo il collega sorridente che mi dice: “Buongiorno Lori, volevo salutarti, perché dalla prossima settimana sono in pensione”. Con aria sgomenta lo guardo e ripeto l’ultima parola, quasi in trance “…pensione! Scusa Luciano, come in pensione?!” e lui mi spiega che in realtà ha firmato le dimissioni, la pensione poi verrà, ma ora dopo aver tanto riflettuto è felice della scelta fatta, non ne poteva più. Eppure non mi sembra tanto “anziano”. Scopro invece che anagraficamente ci separano diversi anni. Scopro anche che si dedicherà a tutti gli interessi che ora porta avanti a fatica: la musica, i viaggi, gli studi che ha ripreso. Insomma, si rimette in gioco.
Lo saluto affettuosamente e gli faccio gli auguri. D’altra parte ultimamente appariva più che stressato.
Mentre salgo le scale penso al mio futuro. Al solito la parte diligente e razionale mi dice “Pensa a tutti quelli che in pensione non andranno mai (come se io avessi tante probabilità più di loro!). Pensa a chi non ha lavoro. Pensa a chi ha un contratto con scadenza periodica e tutte le volte che deve rinnovarlo, strippa prima di sapere se sarà confermato.” Tutto razionalmente vero. Però continuo a pensare a Luciano, che tutti i giorni a venire si risparmierà il viaggio in navetta, le cazzate giornaliere delle news aziendali, i discorsi via web dell’AD, i corsi di aggiornamento pallosissimi e inutili, ma utili all’azienda perché becca i soldi della comunità europea e ammorba i suoi dipendenti con giornate perse a seguire in aula un imbecille che legge le slide a voce alta e che non si è neanche preso la briga di leggersele a casa la sera prima per non apparire impacciato come un bambino di prima elementare.
Penso a tutto ciò.
Il giorno dopo arrivata alla macchinetta ho scoperto che il mio badge si è smagnetizzato. Lo guardo con una certa apprensione e mi chiedo se “il Grande Fratello”, oltre a passare in rassegna le mie mail, abbia fatto dei passi da gigante e riesca a leggere anche i miei pensieri.
Cerco di rimodularli e dico “Ma dai! scherzavo, figurati se mi ammorbo ai corsi o se non trovo interessante l’intervista rilasciata dall’AD alla Rai?!”.

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GRAZIE, SONO FELICE

Ieri ho letto un bellissimo post:  “Amo la vita” https://sguardiepercorsi.wordpress.com/2015/03/18/amo-la-vita/
In particolare un passaggio mi ha colpita “Oggi sono contenta. Senza un motivo particolare. Semplicemente contenta di essere nella mia vita, con le relazioni umane che qui abitano o transitano per un po’.”

Io oggi sono contenta ed ho vari motivi per esserlo.

Oggi tornata a casa ho trovato il Micione di Stravagaria (https://stravagaria.wordpress.com/).
L’ho visto sul suo blog ed è stato amore a prima vista. Oggi è arrivato e vi sembrerà sciocco, ma quest’incontro mi ha emozionata, come se all’improvviso questo contatto con il mondo al di là dello schermo si sia rivelato concreto.

E’ ricomparso un amico di cui avevo perso le tracce e ciò mi ha riempito di gioia (http://www.fmtech.it/diario/). Bentornato Marco!

Sto leggendo un libro bellissimo, che mi ha regalato un’amica.

Nel pomeriggio sono andata al teatro e lo spettacolo mi è piaciuto tantissimo.

Ecco, volevo condividere con voi questo momento, perché a volte sembra così difficile dire grazie e sono felice.
Oggi sento di poter e voler ringraziare le persone che hanno reso speciale questa giornata.
Un saluto anche da Micione.
Buona notte a tutti.

gattone

 

 

 

 

 

 

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UNA RISATA VI SEPPELLIRA’

Il primo grugnito della giornata lo emetto al suono della sveglia, a cui dopo tanti anni ancora non mi sono abituata. E’ un grugnito di disapprovazione e malcontento, non molto educato, ma me lo consento per esprimere il senso di disagio e di incapacità di sopportazione. Gli altri li emetto nel corso della giornata per esprimere il mio dissenso di fronte a situazioni che sempre più mi riescono intollerabili: cassonetti della spazzatura stracolmi, corse degli autobus soppresse, deviazioni del traffico senza preavviso e con motivazioni lasciate all’immaginazione dei cittadini, lunghe attese con i call-center per prenotare una visita e così via.
L’altra mattina, quando avevo già grugnito alla sveglia, al cassonetto, alla buca lasciata aperta da tempo immemore dopo i lavori alle tubature del gas,  la mia attenzione è stata captata da un segnale di pericolo posto sul marciapiede poco prima dell’ingresso della metropolitana. Il grugnito di sorpresa e disapprovazione che è uscito deve essere stato piuttosto forte, la ragazza davanti a me si è voltata di scatto con lo sguardo impaurito pensando di avere alle calcagna un animale selvatico.
Questa estate hanno deciso che per effetto di un progetto di riassetto del decoro urbano andava urgentemente (?!) ripavimentato il marciapiede, solo il lato destro, il sinistro forse la prossima estate. Nessuno aveva invocato l’urgenza di questi lavori, eravamo così contenti di camminare sull’asfalto e poi di lavori urgenti ce ne sarebbero stati a centinaia. L’operazione è risultata molto impegnativa, circa tre mesi o giù di lì. L’asfalto è stato sostituito con una nuova e più moderna pavimentazione costituita da mattonelle di cemento.
Ora quando si poggiano i piedi si è accompagnati dal concerto che magicamente scaturisce dal pavimento, visto che le lastre sono state poggiate senza essere fissate. Avranno pensato che se qualcuno avesse voluto esprimere la propria creatività avrebbe potuto nottetempo, quando la calura estiva ti porta a dover uscire a tutti i costi da casa giocare al Lego.
Il tutto risulta senza dubbio più divertente quando piove, perché l’acqua si infiltra sotto la pavimentazione e i piedi sul lastrone creano l’effetto pozzanghera, con l’acqua che ti schizza i polpacci. Ma tu senti di essere tornato bambino, quindi saltelli da un mattone all’altro invocando una filastrocca che preferirei non riportare in questo contesto.
Mai però avrei pensato che l’effetto finale dovesse essere quello di “vediamo chi cade nella buca!” perché i mattoni sono poggiati sul nulla …

SAMSUNG

SAMSUNG

In questi momenti il grugnito potrebbe essere sostituito da un ululato. Oppure per non morire di rabbia avere l’ironia e riuscire a tirarla fuori con qualcosa di analogo a quello che sono riusciti a fare questi due ragazzi con molta creatività. E mi torna alla mente un vecchio slogan in cui ahimè credo ancora “Una risata vi seppellirà!” (tanto la buca già c’è…)

 

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IL SALTARELLO DI HOMER SIMPSON

homer

Gentile Professore (anche se, me lo lasci dire, gentile nel suo caso non è molto appropriato), probabilmente, anzi sicuramente, non è a conoscenza del fatto che ormai da qualche tempo a questa parte, almeno una volta a settimana, in casa nostra si apre un “siparietto” molto comico, in cui con molta ironia, mio figlio e i suoi compagni di scuola inscenano le sue lezioni di educazione fisica. Io sono un’assidua spettatrice e ormai sua indiscussa fan. La sua notorietà, mi dispiace dirglielo, non è data dalle sue prestazioni fisiche o abilità ginniche, ma dalle sue lezioni di tarantella e saltarello. Caro professore, dovrebbe però rivedere un attimino le coreografie. Danze come il saltarello, la tarantella, la pizzica sono espressione di energia e vitalità e lei me le mortifica con passi sul posto stile minuetto e con coreografie che sembrano più adatte ad un centro anziani con alta concentrazione di ottuagenari affetti da artriti e reumatismi!

Ho immaginato varie volte di venire a colloquio da lei, ma alla fine si sa, il prof. di educazione fisica è quello che spesso viene penalizzato, meno gettonato dai genitori, che preferiscono ammassarsi in fila per un colloquio con i prof. di matematica o lettere. Sarei comunque venuta, se non altro per soddisfare la mia curiosità e conoscerla di persona, ma in cuor mio avevo anche il timore che il colloquio potesse svolgersi in questo modo: “Buongiorno Prof., sono la mamma di… che mi dice di mio figlio?” la risposta rischiavo che fosse: “Mah, in effetti durante l’ultima lezione, sulle note di “Daje de tacco, daje de punta” suo figlio spesso si distraeva e non seguiva il ritmo, ho difficoltà ad esprimere una valutazione positiva nei suoi confronti…”
Come madre mi sarei sentita un po’ umiliata e tornata a casa avrei dovuto prendere da parte mio figlio e dirgli “Da oggi, il pomeriggio lo dedichiamo a ripetere i passi della tarantella napoletana, mi dispiace, non vedo alternative.”
Ma vede, io mi sono cimentata davvero poco nelle danze popolari e non sarei di grande aiuto.

Nel mio immaginario non riesco a figurarmela stile Yuri Chechi, direi a causa di altri aneddoti che mi vengono narrati, sicuramente la immagino più vicino al personaggio di Homer Simpson. E’ pur vero che i ragazzi hanno la tendenza ad esagerare nell’imitare e nel mettere in risalto difetti e vizi dei professori, d’altra parte chi di noi durante le cene con gli ex compagni di classe non ha tirato fuori anche anni dopo la fine del liceo imitazioni esilaranti di alcuni professori?!
Però devo sinceramente dirle che ritengo leggermente disgustosa l’altra attività che richiede durante le lezioni ai suoi alunni. Quella di inviarli a ravanare nella spazzatura del cortile alla ricerca di una bottiglietta di plastica usata per non spendere i pochi centesimi al distributore delle bibite, beh mi fa un po’ schifo. I ragazzi trovano queste sue stravaganze molto divertenti, la fanno davvero somigliare molto ad uno di quei personaggi di sit-com americane che loro seguono e dove avvengono schifezze varie. Ma io appartengo ad altra generazione, forse sono anche leggermente schifiltosa e a meno che non mi trovi in stato di reale e impellente necessità (ora ho difficoltà a farmene venire in mente una credibile), non ho l’abitudine di rovistare nei cestini dei colleghi. Ma che dire, probabilmente mi sfugge qualcosa.
Inoltre il fatto che impieghi i suoi alunni nella compilazione del registro di classe, avvalendosi della scusa della menomazione della falange del pollice destro, mentre lei trascorre parte dell’ora di lezione a rollare tabacco, beh…la mia mancanza di compassione nei suoi confronti dipenderà dalla mia scarsa sensibilità. Non riesco ad immaginare cosa possa uscire da quei registri durante i consigli di classe. Eppure la rassicuro, i suoi alunni le sono molto affezionati e non la sostituirebbero con un altro professore. Neanche con una delle sue colleghe a cui, durante la lezione che svolgono nella palestra attigua, a causa del tono di voce che usano per dare indicazioni su come fare piegamenti, rotazioni delle braccia, saltelli (a che serviranno in effetti?!) lei invia richiami del tipo “A stronza, e abbassa la voce!”.
Detto questo, non trovo molto educativi i suoi metodi, ma non riesce ad essermi antipatico, forse perché l’associo a Homer Simpson o perché se lei venisse sostituito verrebbero a mancare i quadretti settimanali che mi fanno comunque ridere.
Non so cosa ne pensino gli altri genitori, ma d’altra parte per scelta non aderisco a nessun gruppo d’ascolto e di preghiera e quindi neanche ai gruppi che piacciono tanto agli altri genitori su whatsapp o facebook.
Ho saputo che accompagnerà una terza a Berlino. Spero non siano i ragazzi a doverle rammentare che i bagagli a mano vengono ispezionati prima della partenza, quindi faccia la cortesia, eviti di fargli fare figure di merda e tolga materiale compromettente dallo zaino, se ne ha.
Le porgo i miei saluti, sperando che alcuni dei miei suggerimenti le giungano e decida di rivedere le coreografie dei suoi balletti.

p.s. Tutti i fatti narrati e i personaggi sono di pura fantasia.

 

 

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PERCHE’ QUESTO BLOG?!

PUNTO INTERROGATIVO

Perché un blog?

In questi giorni ho avuto necessità di riflettere sul senso del mio essere qui.
L’input è scattato quando un blogger mi ha chiesto se non mi infastidiva rispondere ad alcune domande che desiderava farmi. Le ha chiamate “curiosità”, ma l’estrema delicatezza con cui le ha presentate mi ha dato l’opportunità di parlare con lui apertamente di me e della necessità che mi ha indotta a decidere di aprire un blog. Parlarne ha suscitato tante nuove emozioni, e riflessioni.

Perché sono qui?
Ho avuto bisogno di rifletterci, mi sono sentita inadeguata e fuori luogo. L’intento con cui il blog è nato era quello di creare una finestra a cui potesse accedere chi, come me, stava vivendo un momento di disagio, di incapacità di accettazione. Ma poi, come nella vita reale, la strada che si è delineata è stata diversa da quella che avevo immaginato.
Mi sono chiesta se effettivamente avesse un senso continuare.
Ho avvertito nelle risposte che avevo dato la rabbia che pensavo di aver superato e che ancora non mi consente di riuscire a giocare con me stessa, con la nuova me, come vorrei essere in grado di fare. Ma forse sono troppo severa nei miei confronti, credo ci voglia del tempo per adeguarmi con leggerezza ad una situazione inaspettata e non propriamente piacevole. Rileggendo quello che avevo scritto mi ha anche permesso di individuare una carica di ironia che mi appartiene e che in alcuni momenti mi consente di sorridere di fronte a episodi e gaffe involontarie.

Ho messo giù questi pensieri perché nel frattempo sono sparita e vorrei rassicurare chi mi ha scritto, e spero lo sappia senza dover leggere questo post, che parlare con lui mi ha fatto bene. Vorrei inoltre ringraziare Nuvola per avermi citata con un premio, un gioco che permette di segnalare i blogger di recente acquisizione. Ma la mia presenza discontinua mi fa dire con estrema sincerità che mi sembra una citazione immeritata. In ogni caso grazie, mi ha fatto piacere.

Se tornassi indietro e mi chiedessero “Cosa vuoi fare da grande?” risponderei senza esitazione “Il clown”. Mi piace la sua capacità mimica, l’espressività del corpo e del volto, l’arte di camuffarsi con abiti deformi e colorati, le parrucche pazze (che nel mio caso andrebbero a cecio, come se dice a Roma) e quell’ironia un po’ cattiva che però scatena sempre una risata. Ma forse non è necessario arrivare a tanto; magari se riuscissi a liberare l’ironia nel raccontarmi, potrei imparare a giocare lo stesso… magari giocherei anche un po’ di più con la mia immagine e allenterei la tensione…  e magari non avrei rinunciato al trekking di domani per il troppo vento: non sono poi così clown da rincorrere la parrucca lungo il sentiero nel caso voli via.

Buona serata.

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EIN FALL FÜR HARRY

DERRICK

La nostra vita è costellata di incontri con angeli inconsapevoli, che bussano alla nostra porta proprio nel momento in cui ne abbiamo un disperato bisogno, e forse in quel momento, neanche noi sappiamo quanto il bisogno della loro presenza sia grande.
Probabilmente loro non sapranno mai quale aiuto hanno apportato, che significato abbiano avuto nella nostra vita.
Così una piovosa mattina di agosto alla mia porta si è presentato lui, Harry Klein, il fedele assistente dell’ispettore Derrick, uscito da una puntata degli anni 70.
Il tassista che avevo chiamato per raggiungere la città più vicina per prendere un treno che ci riportasse in Italia, l’Harry Klein di una minuscola cittadina dell’entroterra austriaco, sarebbe stato il mio angelo. Entrambi inconsapevoli dell’importanza che avrebbe assunto.
Lui, probabilmente, quando aveva ricevuto la chiamata l’aveva considerata una benedizione per svoltare una domenica uggiosa, che a conti fatti gli avrebbe fruttato un guadagno inaspettato, considerando il numero dei chilometri da percorrere, la sovra tassa domenicale e il supplemento bagagli.
Quando ho aperto la porta non devo aver fatto una grande impressione.
I vestiti che indossavo erano del giorno prima, sporchi e anche maleodoranti, visto che la notte avevo dormito con quelli indosso. La faccia tesa ed emaciata non era un bel vedere e quel collare a sorreggere il collo!
Mentre aspettavo che arrivasse mi chiedevo se almeno lui conoscesse qualche parola di inglese o francese.
Ma ahimè, anche lui parlava solo in tedesco. Almeno in questo l’Austria è molto più vicina a noi di quanto si possa immaginare.
Già il giorno prima, in ospedale, avevo capito che dovevo rispolverare dalla memoria qualche parola in più di quelle del mio scarso vocabolario.
Era necessario che gli riuscissi a raccontare sommariamente cosa fosse accaduto 24 ore prima, che l’esigenza non era solo quella di essere accompagnati in un’altra città, ma di svolgere prima alcune operazioni, scomode, ma necessarie. Per esempio andare al deposito dove il carro attrezzi aveva portato la macchina dopo l’incidente, svolgere alcune pratiche amministrative per la rottamazione e recuperare i bagagli.
Tutto ciò in tempi brevissimi, dato che ero stata dimessa dall’ospedale solo mezz’ora prima, che era domenica e che il deposito avrebbe chiuso di lì a poco.
L’indirizzo era stato accuratamente scritto su un foglietto che gli ho teso, sperando avesse compreso quello che avevo raccontato in un tedesco sgrammaticato, che credo, neanche Lillo e Greg nella migliore interpretazione sarebbero riusciti a rendere così comico.
Lui non solo aveva capito quasi tutto, ma era visibilmente partecipe.
In macchina durante il tragitto fino al deposito fece un sacco di domande. Voleva conoscere la dinamica dell’incidente, come stavamo, si preoccupava che io non ce la facessi nella mia condizione ad affrontare un viaggio in treno, chiedeva se qualcuno sarebbe venuto a prenderci. Non so in effetti cosa io abbia raccontato. Più che parole, avevo l’impressione che mi uscissero dei suoni disarticolati. Eppure lui capiva, o comunque ce la metteva tutta per capire, comprendeva il mio sforzo, la mia emozione nel raccontare, la tensione che tentavo di tenere a bada per avere la calma e la lucidità nel portare a termine un’operazione che avrei volentieri affidato a qualcun altro.
Arrivati all’autofficina pioveva e noi ovviamente eravamo sprovvisti di ombrello. L’unico bagaglio era il mio zainetto, contenente poche cose recuperate prima di essere trasportati in ospedale e la cartella clinica, con il risultato delle lastre, della tac e il certificato di dimissione dall’ospedale che il medico mi aveva fatto firmare facendomi capire che solo il mio consenso e l’urgenza di voler tornare a casa percepita nelle mie parole,  gli permettevano di sollevarsi dalla coscienza una decisione un po’ azzardata.
Il braccio destro di Derrick a quel punto avrebbe dovuto solo attendere in macchina: una volta terminata la pratica ci avrebbe accompagnati in albergo e lì avremmo cercato di dare un senso a quello che effettivamente avremmo potuto fare.
Ma lui premurosamente è sceso, ha raccolto degli ombrelli dal bagagliaio e ci ha accompagnati all’interno.
Nessuno parlava inglese, anzi l’idioma che usciva dalle loro bocche mi risultava ancora più ostico, se possibile, e incomprensibile. Ero in preda all’ansia, al panico, alla tensione che accompagnava quel momento. Lui se ne è accorto e con delicatezza, toccandomi un braccio mi ha detto di parlare con lui, di porre a lui le domande. E da quel momento si è messa in atto la situazione più paradossale della mia vita. Io mi rivolgevo a lui nel mio tedesco sgrammaticato e lui traduceva in tedesco all’addetto. Aspettava la risposta e poi si rivolgeva a me  in tedesco riportandomi la richiesta di compilare formulari, di produrre i documenti, di andare a vedere la macchina prima di firmare per la rottamazione.
Poi ha recuperato gli ombrelli e ci ha sospinti delicatamente nel rimessaggio.  Era la prima volta che guardavo la macchina dopo l’incidente e che potevo prendere consapevolezza di quanto fortunati fossimo stati. Ci ha aiutati a prendere i bagagli, a decidere cosa recuperare e cosa no. Ha staccato le targhe, ha ispezionato la macchina con la medesima attenzione con la quale avrebbe ispezionato quella di un suo familiare. Ha capito il momento di commozione, ci ha detto parole di conforto, ci ha accarezzati con lo sguardo. Ha caricato sul taxi i bagagli e ci ha condotti in albergo. La tariffa del percorso che abbiamo pagato equivaleva a quella che ci avrebbe chiesto un tassista romano per condurci dalla stazione a casa. Nessun supplemento, neanche quello dovuto al tempo trascorso con noi.
Ci ha stretto la mano, ci ha fatto gli auguri, è risalito sul suo taxi e non so se col tempo si sia dato del cretino per non aver sfruttato la situazione a suo favore.
Certo è che ancora oggi penso di essere stata l’unica persona ad avere avuto un interprete dal tedesco al tedesco e pensandoci rido a crepapelle.
Carissimo Harry Klein, angelo inconsapevole di uno dei momenti più difficili della mia vita, non ricorderò certo quel tuo giubbotto di pelle nera un po’ fuori moda, quel tuo cappello così sfacciatamente copiato a Derrick. Ricorderò la tua delicatezza, la tua disponibilità e la tua generosità per esserti messo al mio servizio proprio nel momento in cui ne avevo bisogno e la mente cominciava a vacillare dopo tutta la tensione che aveva accompagnato quel tragico episodio che avevo solo necessità di dimenticare.

 

 

 

 

 

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UNA FOTO PUO’

Una foto può.
Può, in un unico scatto, cogliere bellezza e orrore.
Può graffiare il cuore più di tante parole. Può esprimere rabbia, dissenso, disperazione, dolore ma anche amore. Può sbatterci in faccia impietosamente un’immagine senza che si abbia il tempo di voltare lo sguardo. Può esaltare dettagli apparentemente insignificanti. Può dare voce a chi non ce l’ha. Può dare colore ad un mondo in bianco e nero o sfumare i colori di un mondo che ormai li ha perduti. Può frugare nell’intimità di un volto, uno sguardo, un gesto, un movimento.
Può scavare in profondità, nell’anima di chi guarda l’obiettivo.
Tutto ciò pensavo stamattina, guardando questa foto.
Pensavo a quando il fotografo ha premuto il tasto ed un impercettibile click ha colto l’immagine, un frammento infinitesimale di questo mondo, non lasciando spazio al silenzio, ma lanciando un grido, feroce.

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(Rescue Operation, Massimo Sestini (Tra la Sicilia e Malta)

 

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#ioleggoperché

Non mi ritengo un lettore timido, ma devo superare la timidezza. Spero l’invasione in rete di questa iniziativa non si fermi qui ma continui

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DA NORMAN ROCKWELL A PAZ

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Qualche giorno fa sono andata a vedere la mostra di Norman Rockwell e mentre guardavo le copertine del The Saturday Evening Post da lui disegnate, si è affacciato prepotente un ricordo che mi ha riportata all’infanzia. Mia nonna riponeva gelosamente nel cassetto della credenza in cucina una rivista, che usciva settimanalmente. Era “Grand Hotel”. Lungi da me voler paragonare stilisticamente il genio di Rockwell con i più modesti illustratori italiani di Grand Hotel (anche se mi permetto di citare Walter Molino), ma a volte ti accorgi come nei meandri della mente ricordi ormai fascicolati e riposti, riemergono trascinando con sè tante altre immagini che pensavi dimenticate.

Così mi ritrovo seduta in cucina, intenta a sfogliare la rivista di cui guardo le immagini colorate che scorrono sotto i miei occhi, mentre addento la merenda che mia nonna ha preparato e che io trovo la migliore prelibatezza del mondo, una fetta di pane casareccio con olio. A volte era sostituita da una frittella spolverata di zucchero o, nella sua versione povera, una fetta di pane bagnato e zucchero. Queste nei miei ricordi sono le merende migliori, quelle che mi piaceva sbonconcellare, mentre guardavo mia nonna stirare o dedicarsi alla cucina e che associo ai rumori provenienti dal cortile. Il rumore dello scorrere dei fili tesi da balcone a balcone su cui venivano stesi i panni, le voci provenienti dagli altri appartamenti, i saluti da finestra a finestra.  Ricordo anche che mia nonna mi concedeva di giocare con due scatole, che contenevano tesori per me preziosissimi. Una era la scatola dei bottoni, nel mio immaginario piena di pietre preziose, sete raffinate, scampoli di stoffe damascate adatte a creare abiti sontuosi e principeschi per le mie bambole. Ora a voler fare psicologia spicciola si potrebbero dare varie interpretazioni sulla mia passione, che ho tutt’oggi, nei riguardi dei bottoni. Ma premetto che ho una passione smodata per tutto ciò che è futile ed effimero. Ai miei occhi assume un valore inusitato anche un semplice sasso colorato, che poi a mio dire definirlo semplice è un’offesa. Comunque, se questo può dar seguito a suggestive interpretazioni freudiane, parlandovi dell’altra scatola scatenerò ancor di più la necessità interpretativa delle mie “insane” passioni infantili. La seconda scatola conteneva centinaia di santini. Si, proprio quelli, le immaginette sacre di santi e madonne. Mia nonna era un mito. Ne aveva centinaia, non equiparabili a nessun album della Panini. Li trovavo meravigliosi. Avete idea di quante chiese ci siano a Roma? Ebbene all’epoca credo ci fosse una sorta di competizione su quella che riuscisse a fornirne di più belli, più ricchi e colorati, sontuosi nelle immagini e nelle dimensioni. Lei era una gran collezionista! A quale di quei santi si rivolgesse poi, non so davvero. Se ne avesse uno preferito non ricordo. Io ogni volta li schieravo in enormi file lungo il corridoio e decidevo di dedicare il mio ardore settimanale a quello che a mio parere meritava la mia attenzione perché il più bello. Tutto ciò non ha aiutato la mia vocazione religiosa, anzi, credo che abbia generato una certa confusione. Alla fine questa curiosità per i colori e le immagini ha sviluppato una insana passione per i fumetti e con il tempo mi sono trovata ad apprezzare ben altri illustratori.
Il mio devoto ricordo va sempre a Paz.

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IL TRUCCO, UN RITUALE IRRINUNCIABILE

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Sorseggiando il mio cappuccino guardavo affascinata le operazioni del suo rituale mattutino. La cura con cui spalmava la crema sul viso, il tratto con cui disegnava gli occhi e la sicurezza con cui dipingeva le labbra, noncurante di chi le stava attorno e si avvicendava al banco per consumare la colazione. Nell’angolo più estremo, con il beauty-case aperto, lo specchio in cui rifletteva la propria immagine, appariva leggermente infastidita da chi tentava di farsi spazio per ricevere attenzione dal barista e la costringeva ad interrompere un’operazione così complicata, richiedente una particolare concentrazione. Entrando nel bar, se non fosse stata per l’ora e il luogo, potevi supporre che si stesse tenendo una lezione dimostrativa  di una casa produttrice di cosmetici, ma era talmente paradossale, che immediatamente cancellavi l’ipotesi e ti concentravi su di lei. Una donna non giovanissima, con una fascia sulla testa che le teneva indietro i capelli e le scopriva la fronte, intenta con attenzione a truccarsi, come fosse nel bagno di casa sua e si stesse preparando ad uscire.

Non potevo fare a meno di osservarla, compiaciuta della sua capacità di non sentirsi assolutamente fuori luogo, impassibile agli sguardi curiosi e ai commenti dei clienti.
Questa estate il bar ha chiuso per alcuni mesi; necessitava di un restauro. Ciò ha creato squilibri inimmaginabili tra gli avventori, che per giorni hanno continuato a chiedersi come sarebbero sopravvissuti. Un senso di rassegnazione e sconcerto serpeggiava fra coloro che avvertivano pesantemente l’interrompersi di un rituale seguito per anni. Venivano privati della certezza di poter consumare il rito mattutino nel luogo che li aveva accolti per anni. Tale notizia era paragonabile solo a quella di un imminente trasferimento della sede di lavoro in un luogo più sfigato di quello che erano costretti a raggiungere tutte le mattine. Soprattutto i primi giorni li vedevi aggirarsi lungo il marciapiede con lo sguardo perso, privi del necessario coraggio per attraversare la strada e avventurarsi verso luoghi ignoti e sicuramente pieni di pericoli.
L’unica persona che ha dimostrato una notevole capacità di adattamento è stata proprio lei.
Una mattina sono uscita dalla metro e l’ho trovata lì, con il beauty-case appoggiato sul dispenser dei giornali, una coperta stesa in terra sulla quale aveva collocato un thermos una tazza e un pacco di biscotti, indifferente agli sguardi sorpresi e curiosi, incurante dei rumori, il cattivo odore, la sporcizia. Tutt’oggi, nonostante il bar abbia riaperto, lei continua ad usufruire dello spazio nel corridoio nella metro. Io passo e la spio, mentre con mano certa, alla luce soffusa della stazione, esegue il tratteggio delle palpebre, delle labbra, sorseggia la bevanda fumante dalla tazza e ci inzuppa un biscotto. Non posso farci nulla, sono rapita dalla sua immagine.
Per preservare la privacy della signora non menzionerò la stazione della metro, cosi come la navetta aziendale che l’accoglie a operazione conclusa.

 

 

 

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REGA’ E’ ARRIVATO…

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La mattina quando scendo per prendere la metro, loro sono già lì vicino ai tornelli, in attesa, che guardano insistentemente l’orologio con quell’aria scoglionata che pare dire “anche oggi in ritardo”.

All’inizio passavo velocemente, leggermente infastidita che stessero proprio là, ad ostruire il passaggio. Un gruppo di ultra settantenni che ancor prima delle 7 è in attesa, come fuori dall’ufficio postale prima dell’apertura, incuranti del freddo, del cattivo tempo, del buio, che d’inverno si attarda anche a quell’ora.
Tutto ciò mi ha anche incuriosita. Chi aspettavano? Stralci di conversazione facevano giungere alle mie orecchie frasi del tipo “Non si vede ancora”, “oggi è in ritardo”, “avrà cambiato giro …”. Ma chi? L’amico con cui si davano appuntamento per prendere il primo caffè mattutino? Un figlio che doveva accompagnarli ad una visita? Ma che senso aveva quest’aria complice, d’intesa tra loro,  come fossero gli unici ad essere a conoscenza di chi realmente sarebbe sopraggiunto ad insaputa degli ignari viaggiatori, che già a quell’ora si affannavano a scendere le scale?
Alcuni di loro, rassegnati, guardavano con sguardi vuoti la piantina della città appesa alla parete, altri osservavano le persone che passavano ai tornelli, ma con un’aria distratta e una evidente ansia nel valutare se fosse il caso di preoccuparsi o meno di quell’insensato ritardo.

Tutto ciò fino a qualche mattina fa, quando la “vedetta” è scesa velocemente dalle scale, come solo un settantenne sa fare, annunciando “Regà (regà?!!) è arrivato!”.
Ho rallentato il passo, dovevo assolutamente venire a capo del mistero.
Lungo le scale il rumore delle ruote di un carrello pesante che scendeva e alla fine è apparso lui! L’omino che trascinava il carrello dei giornalini gratuiti!! Non ci potevo credere! A malapena è riuscito a recidere la linguetta di plastica che avvolgeva il pacco e già ansiose mani nodose si protendevano verso l’oggetto così a lungo atteso e così desiderato che in pochissimo tempo hanno fatto man bassa del primo mucchio di giornali, prima ancora che venisse disposto sugli espositori. Ognuno di loro ne agguantava 10, 20 a volta, armato di busta di plastica, con la faccia felice e soddisfatta, nascondendo il bottino e guardando compiaciuto il vicino più timido che ancora non aveva ottenuto nulla.
Ho sceso le scale della metro molto perplessa. Che cavolo se ne fanno dei vecchietti di un mucchio di squallidi giornalini? Non uno o due, ma dieci, venti, trenta giornalini cadauno.
Li portano a casa? Li distribuiscono in famiglia? Leggono la prima pagina da una copia, la seconda pagina da un’altra, l’oroscopo dall’ultima copia e i programmi televisivi dalla penultima? Leggono le copie sgualciendole con soddisfazione, tanto chissenefrega ne hanno un’altra da leggere?
Mi sembrava così paradossale. Poi riflettendo ho capito che probabilmente per loro è una missione da compiere. Sfidano il freddo, il maltempo e il buio per avere la soddisfazione di portare il loro bottino al portiere del condominio e lasciare le copie per i condomini a cui sicuramente il portiere dirà “Buongiorno, vuole un giornalino l’ha portato il Sig. Mario, il ragioniere in pensione, quello del secondo piano”. Oppure al bar, dove il barista l’attende con il caffè già pronto, nel bicchiere di vetro. O al negozio di alimentari  dove si ferma a comperare il pane prima di far ritorno a casa.
Sono sicura del compiacimento quando vengono ringraziati per l’opera di bene che tutte le mattine svolgono  e che, probabilmente, dà un senso alla loro giornata.
Immagineranno di essere citati tutte le volte che qualcuno prenderà una copia del giornalino come “il signore tanto gentile che la mattina prima di venire si ricorda di passare a prendere i giornali per noi”.
Mi è venuto da ridere e arrivata al lavoro ho suggerito ad una collega in procinto di andare in pensione di prodigarsi anche lei prossimamente nello stesso modo. Passare la mattina presto, ma molto presto (altrimenti gli altri scaltri vecchietti la fregano sul tempo) alla prima stazione della metro, fare il suo bel carico di giornali e poi venire da noi e distribuirli nelle stanze. Se però avesse gradito una citazione di merito, sarebbe dovuta passare anche in pasticceria a comperare dei cornetti e per me un bel maritozzo con la panna.
Ometto le parole che hanno accompagnato il suo disappunto per la mia idea, che non mi sembrava così male, anche se scopiazzata ai vecchietti.

 

 

 

 

 

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GIORNO DELLA MEMORIA – PER NON DIMENTICARE MAI

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Mio nonno era sopravvissuto ai campi di lavoro in Germania, rientrato in Italia quando ormai tutti pensavano fosse morto e nessuno sapeva quale fosse stato il suo destino.
Aveva una fame atavica e lo sguardo carico di pensieri. Era sopravvissuto a qualcosa che non riusciva a dimenticare, ma che non voleva raccontare. L’unica cosa che raccontava a noi nipoti, giustificando il suo appetito, era che quando arrivarono gli americani, trovò un sacco di patate che mangiò crude e ciò non fece che peggiorare il suo fisico, debilitato dalle privazioni.

All’epoca non capii l’importanza di farmi carico dei suoi ricordi, certa che la memoria venisse preservata senza dover sottoporre lui all’ulteriore tortura di dover raccontare ciò che faticosamente ha sempre cercato di dimenticare. Oggi ho la certezza che si abbia l’obbligo morale di raccogliere le testimonianze di chi è sopravvissuto a tali atrocità, perché non si dimentichi mai.
Solo quando ormai era molto anziano dalle sue labbra uscivano parole smozzicate, che ringoiava con reticenza e umiltà, quali “bambini, fame, umiliazione, freddo, sputi, morti …”.
So che la reticenza nell’esprimere il dolore era dovuta al fatto che lui era sopravvissuto e tanti altri no.
Quando, malato di Alzheimer, la sua mente ha cominciato a vacillare, sono cadute le barriere che si era così lungamente imposto. I filtri alla sofferenza  sono venuti meno e gli episodi vissuti sono ripiombati nella sua mente nitidi e reali.

Così una notte è fuggito dalla sua casa in Umbria, in pigiama. Quando mio padre e mia madre hanno avuto la percezione nel sonno che qualcosa fosse accaduto, hanno trovato il suo letto vuoto e hanno iniziato a cercarlo. Dopo qualche ora, quando ormai la ricerca era risultata vana, si sono diretti alla stazione dei carabinieri per denunciarne la scomparsa e lì hanno trovato mio nonno, avvolto in un plaid con una tazza fumante in mano. Graffi in volto e sulle braccia.

Aveva raccontato di essere fuggito dal campo, nel buio e con la paura che le guardie potessero inseguirlo. Si era gettato tra i rovi del bosco, scivolando lungo la scarpata, con il cuore in gola, la paura dei latrati dei cani, non sapendo bene dove andare, ma con la sola convinzione di dover fuggire il più lontano possibile da quell’inferno che si era lasciato alle spalle. Aveva perso l’orientamento, aveva freddo, ma al freddo c’era abituato. Fino a quando non aveva visto l’insegna dei carabinieri e la bandiera italiana e aveva deciso di essere finalmente arrivato a destinazione e lì aveva chiesto ricovero.
A volte confondeva le persone e nella testa riemergevano volti che aveva voluto dimenticare, con tanta determinazione, con l’istinto di sopravvivenza, per continuare a vivere nonostante il peso che aveva sul cuore.

Oggi è il giorno della memoria e io Arturo ti ricordo.

 

 

 

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UNA PARTITA DI PALLAVOLO

PALLAVOLO

Da quando è iniziato il campionato almeno una volta alla settimana, se non due, attraversiamo Roma alla scoperta di micromondi sconosciuti di cui è costituita questa città, per lo più dislocati in aree periferiche, non agevolmente raggiungibili.

Così rassegnati a sostenere un tragitto non inferiore ai 20/25 chilometri, che richiede con il tempo del traffico cittadino non meno di un’ora, ci accingiamo ad intraprendere il viaggio in macchina, ed io mi ripeto costantemente un mantra sulla necessità di mantenere la calma, la pazienza e la necessaria concentrazione per evitare la smart che fa lo slalom tra le macchine, il pedone che si getta nel traffico impazzito, il motorino che supera a destra e la macchina del furbetto idiota che viaggia a tutta velocità sulla corsia laterale d’emergenza.

Il tutto accompagnato da strade prive di segnaletica o di un qualsiasi  cartello che ti indichi dove svoltare ed è solo il tuo fiuto che evita di farti fare il giro del mondo per riprendere la strada esatta. In quei momenti ti chiedi se in precedenti vite sei stato un bracco a pelo lungo o a pelo corto e se non siano le reminiscenze di ciò che sei stato, che aiutano il tuo istinto ad orientarti in strade piene di buche, che non si trovano neanche nella Parigi-Dakar.
Questa è Roma. La Roma che presenta la facciata sconosciuta anche a chi, come me, la abita dalla nascita.
Attraversi quartieri di cui ignoravi l’esistenza, davvero brutti, dove il degrado disturba la vista, fa montare la rabbia e riporta alla mente fatti di cronaca recenti, che potevano emergere molto tempo prima se tutto ciò non avesse fatto comodo a tutti, compresi quelli che hanno costruito abusivamente e hanno condonato per due lire lo scempio che ti appresti ad attraversare.

Eppure questi viaggi hanno anche un altro sapore, ben più allettante e avventuroso, perché di lì a breve si svolgerà la partita e per mio figlio significa la squadra, i suoi amici, l’allenatore, significa condividere l’ansia e la gioia o il rammarico a seconda che il tutto finisca con la vittoria o la sconfitta. La squadra che ti dà la carica, la pacca sulla spalla anche quando la battuta l’hai sbagliata e la palla è out, anche quando non hai raggiunto la palla per tempo o ti sei dimenticato di chiamarla. La squadra è complicità, è il sapore del sostegno, dello scazzo, della lavata di testa dell’allenatore, ma è quella che ti fa capire l’importanza dell’altro, di non poter viaggiare da solo, ma di dover compiere un viaggio in sincrono con gli altri.

I genitori dovrebbero essere chiamati fuori, non solo nel senso materiale, perché spesso le palestre sono così piccole, che a mala pena il campo rientra nelle misure lecite per essere definito tale, ma esserlo anche metaforicamente, perché il tifo è gradito, ma spesso, troppo spesso, accade che qualcuno si senta autorizzato a dare suggerimenti o consigli da bordo campo, se non addirittura di suggerirli al coach, in merito alla formazione, all’esclusione di questo o quello, ai futuri allenamenti che richiedono maggior attenzione sulle battute, sul muro, sul centrale.

L’altra sera ho avuto modo di notarlo. Il numero 6. L’ho notato perché quando la squadra faceva punto lui restava in disparte, l’esultanza della squadra sembrava sfiorarlo, ma non coinvolgerlo. Mi sono chiesta se fosse timidezza. Poi ho visto che quando era possibile scartava l’occasione di prendere la palla, come scartava gli abbracci dei compagni.
Era come se non si autorizzasse a partecipare, consapevole degli errori commessi e spesso rimediati all’ultimo dall’intervento del compagno.

Ho sentito i commenti poco lusinghieri delle altre mamme, ho sentito nei suoi confronti incitamenti nervosi, non affettuosi. Mi sono chiesta se lui li sentisse, se nel caos della palestra giungessero anche a lui. Mi sono avvicinata alle altre per chiedere qualcosa di lui. Ho scoperto che non conoscono i genitori perché non sono mai presenti alle partite, che è l’unico a sorbirsi la fatica del viaggio da solo, con i trasporti pubblici, che difficilmente chiede un passaggio, ma che lo accetta a volte al ritorno, quando non ne può fare a meno.

Eppure è sempre presente, ha un sorriso timido e non si altera mai, neanche quando percepisce lo sguardo dispiaciuto dei compagni e quello di disapprovazione degli altri genitori.
Ho sentito la sua solitudine. Mi sono detta che magari i genitori lavorano e non possono venire; ma la domenica?!  Ho sentito la sua ansia, come fosse un odore che lo distingueva dagli altri.  Ho pensato che è vero che gli animali percepiscono la paura con l’olfatto. Ho pensato che l’ansia e la paura spesso si accompagnano.
L’ho seguito per tutta la partita, credo abbia imparato a mascherare con l’apparente indifferenza il fastidio dei richiami allusivi alle sue incapacità.
Ho scoperto che il padre è un ex giocatore di pallavolo, ma non segue le partite del figlio; perché?!
I commenti seguiti mi hanno mal disposto nei confronti degli altri, sentivo dire “è strano”, “mi fa tenerezza e rabbia”. Ma perché un ragazzo che esprime la sua paura, il suo senso di inadeguatezza dovrebbe suscitare rabbia?

Quando la partita è finita e i ragazzi sono usciti dallo spogliatoio era buio, era tardi e faceva freddo, una mamma si è offerta di dargli un passaggio e lui timidamente ha risposto “se non disturba …”.
Al ritorno in macchina mentre parlavamo della partita a mio figlio ho detto “da oggi sosterrò la squadra, ma con un occhio di riguardo per te e per il 6, se non ti dispiace”, lui mi ha risposto “no, ma perché proprio il 6?” “perché ho assorbito le sue paure, il suo senso di inadeguatezza, perché forse partecipa a un gioco che non è suo, ma si adegua e l’ansia da prestazione è forte. Associo lui  a momenti che ho vissuto, perché in alcuni momenti sentirsi sostenuto e non giudicato è importante, ti permette di trovare la carica che altrimenti non sapresti dove trovare.
Penso che l’allenatore vi stia insegnando molto di più di mettere a segno un punto, vi sta insegnando l’importanza di metterlo a segno tutti insieme, l’importanza di sentirsi squadra, misurarsi con le proprie paure, la voglia di partecipare e il timore di essere escluso. Ma anche se i commenti cattivi arrivano, non possono intaccare la complicità del gruppo. La vittoria di oggi è di tutti, anche di chi al momento è l’anello debole. Le critiche servono per crescere, non per mortificare.”

 

 

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FUNK OFF MARCHING BAND

TRENO

Caro Marco perché ti scrivo visto che so per certo che non leggerai mai questo post?
I nostri sono due mondi lontani. Il tuo senza confini, il mio con confini così ben definiti da mettere paura. Il tuo un mondo “anormale”, che sconfina nel mondo dei “normali. Il mio un mondo “normale” che ha paura di sconfinare.

Già sul treno ti avevo notato. Due grandi occhi celesti, l’aria svagata e ingenua, al seguito del bibitaro abusivo che proponeva a viaggiatori infastiditi dal ritardo annunciato, la sua merce. Un ragazzo poco più che ventenne con uno zainetto sulle spalle, un sorriso stampato sulle labbra, che incedeva avanti e indietro lungo i vagoni del treno.
Non immaginavo che di lì a poco ci saremmo trovati a scendere alla stessa stazione per raggiungere l’appuntamento con gli altri partecipanti a quella giornata all’insegna della musica e della voglia di camminare.
Hai passato in rassegna tutti, chiedendo nome e provenienza, hai espresso il tuo disappunto perché quasi tutte le carrozze erano contrassegnate dalla prima classe. Hai chiesto nuovamente i nomi. Hai teso la mano ad ognuno, lasciando percepire che quel contatto più che costituire il solito atto dovuto alle presentazioni, era la necessità di una carezza,  di un riconoscimento, del desiderio di appartenenza al gruppo.
Lungo le vie del centro, mentre tentavamo di raggiungere la piazza dove la band si esibiva, più volte ti sei perso, distratto dal seguire un volto, un dettaglio e noi sempre pronti con lo sguardo ad intercettare la tua presenza, ad incitarti perché allungassi il passo.
Hai seguito il concerto di spalle. Ti sei calato il cappuccio sulla testa, dondolando sulle gambe a seguire un ritmo tuo, lontano nei tuoi pensieri. Solo dopo ho scoperto che in realtà non ti era sfuggito nulla, che la musica ti era piaciuta davvero.
Tante domande e tanti perché hanno accompagnato la camminata. Molte richieste erano quelle che affioravano anche alle nostre labbra, ma che per educazione, evitavamo di fare. Ma tu candidamente esprimevi quello di cui al momento sentivi l’esigenza. La fame, il freddo, la fatica. “Ma quando finisce la salita? Ma quando si mangia? Ma quanto manca? Ma questo itinerario era previsto nel programma?”.
Ogni tanto correvi in testa al gruppo, per poi restare indietro e perderti nuovamente dietro un’immagine, un pensiero, un perché, un gesto.
Le caramelle che ti ho offerto ti hanno messo a disagio. Volevi essere gentile e hai accettato l’offerta, per poi riportarmi la caramella e confidarmi che mangi solo caramelle gialle, mai le rosse. Hai rovistato nel mio sacchetto del pranzo, leggendo gli ingredienti delle barrette ai cereali e della tavoletta di cioccolato. Sei allergico al latte. Mi hai chiesto la prossima volta di procurarmi un torrone al cioccolato. Vai a sapere… Certo la prossima volta caramelle gialle e torrone al cioccolato.
Sul pullman che ci riportava alla stazione hai chiamato tuo padre, eccitato dalla giornata, dalla camminata, dai compagni di percorso.
Ho pensato che i tuoi genitori sono davvero bravi a darti fiducia, a lasciarti vivere, anche se ho immaginato con quale cuore palpitante ti seguissero da lontano, da casa.
Arrivati alla stazione abbiamo atteso il treno, che come previsto è arrivato stracolmo di coloro che avevano trascorso il Natale a casa, con le famiglie o vacanzieri che tornavano carichi di valigie.
Ci siamo salutati velocemente e ognuno ha cercato un posto per evitare il viaggio di ritorno in piedi.
Il tepore del treno e la stanchezza hanno assopito anche noi, come altri che sonnecchiavano sui sedili.
A Orte ho sentito bussare sul finestrino, era buio e a mala pena o percepito la tua presenza. Mi facevi cenni di scendere. Ho pensato fosse accaduto qualcosa e quando mi accingevo a superare ostacoli di valigie e pacchi di panettoni e cibarie varie, sei entrato come una furia nel vagone gridando “Lorella!!!” Tutti hanno alzato la testa, sei riuscito a svegliare anche chi dormiva pesantemente. Sembrava la scena di “Rocky” quando grida “Adriana!!”. Per un attimo sono rimasta senza fiato. Tu mi hai sorriso e gridando come se fossi ancora sulla cima della montagna hai detto “Io ti volevo solo salutare, prendo il treno per Terni! Hai capito?! Ciao Lorella!!!”. E ciò ha scatenato l’ilarità dei passeggeri e tu non ci crederai, ma li ha riscossi dal loro torpore e noia e dopo che sei sceso hanno iniziato tutti a parlare di quale gesto carino e delicato fosse. Improvvisamente hanno scoperto che erano stanchi del silenzio e hanno iniziato a parlare e a raccontarsi del loro Natale e sui volti sono apparsi sorrisi un po’ ebeti, ma pieni di significato.
Caro Marco ecco perché ti scrivo, per ringraziarti.

 

 

 

 

 

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BUON NATALE

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Il giorno di Natale andavamo a pranzo da mia nonna. Arrivavamo al portone già eccitati, salivamo di corsa le scale, sapendo che all’ingresso saremmo stati accolti dal profumo di cibi buoni, mentre lei in cucina era intenta negli ultimi preparativi.
Come sempre si era alzata prestissimo, per stendere la sfoglia, per preparare l’impasto dei cannelloni, il brodo per la stracciatella, la faraona farcita, i fritti di zucchine, carciofi e ricotta, eppure quando ci vedeva entrare, senza un filo di stanchezza, ci accoglieva sorridendo e ci avvolgeva nell’abbraccio.
Poi arrivavano gli zii e i cugini.
Scoprire la disposizione a tavola era per noi bambini essenziale. La letterina di Natale, scritta con tanta cura, andava riposta sotto al tovagliolo e noi che eravamo tre, avevamo sempre il problema di nasconderle bene, perché non fossero visibili, se non al momento opportuno.
Io ero la più grande e ritenevo che, per diritto di anzianità, la mia dovesse essere letta per prima. Un piccolo vantaggio, rispetto a mio fratello e mia sorella, che mi avevano “spodestata” di parte delle attenzioni di figlia unica.
Mia zia, la moglie del fratello di mia madre, aveva introdotto la novità di Babbo Natale e questo ce la fece amare molto. All’improvviso scoprimmo che potevamo ricevere i regali non solo all’Epifania e che a portarli non era solo una vecchina, che viaggiava a cavalcioni di una scopa, ma anche un uomo anziano e barbuto che arrivava, in maniera molto elegante, con una slitta trainata da renne. Ovviamente tutto ciò con il disappunto dei miei genitori.
Ma lei era stata irremovibile “A casa mia si è sempre festeggiato il Natale con i regali!”
In effetti ho ripescato una foto da bambina a piazza Navona con Babbo Natale, perché poi a casa nostra non fosse mai venuto prima, non lo chiesi mai ai miei e oggi posso capirne il motivo.
La tombola a casa dei nonni era dell’edizione vecchia, senza le finestrine di plastica. I numeri sulle cartelle venivano segnati con i pezzetti delle bucce dei mandarini o delle arance.
Tanti ricordi di sapori, odori, emozioni passate, che si associano alla nostalgia,  che in questi momenti avverto forte, di persone che non ci sono più.

Stasera, visto che era qualche giorno che non mi affacciavo qui, ho letto tanti post bellissimi, ho gratificato la vista con immagini meravigliose, foto con cui avete colto momenti unici della vostra vita, disegni e favole che mi hanno condotta nel vostro immaginario e delle quali vi sono grata.
A tutti voi, che mi emozionate con i vostri racconti, che mi fate sorridere con storie “improbabili”,  che mi fate riflettere con i vostri appunti e annotazioni su questo nostro quotidiano e che sapete renderlo diverso e unico, perché ognuno è diverso e unico nella sua espressività e fantasia, che siate pendolanti, pendolari, viaggiatori, migranti o migratori, stanziali, da cortile o da pascolo auguro buonissime feste.

 

 

 

 

 

 

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I PENSIERI INTELLIGENTI SONO GIA’ STATI PENSATI

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Qualche giorno fa è apparso un articolo su vari quotidiani, che ha scosso il mio senso di rassegnazione “Uno studio dimostra che alcune molecole del sangue possono stimolare le staminali del bulbo capillifero”.
Ho letto l’articolo. Si tratta di una terapia non propriamente nuova, che stanno sperimentando già da qualche anno e che mi era stata proposta come ultimo, innovativo tentativo per vedere se riuscisse a dare qualche risultato.
Quando la dermatologa, che mi aveva in cura me la propose, era già da quasi un anno che mi sottoponevo al “calvario” delle sperimentazioni. L’ennesimo tentativo per risolvere una situazione, che ormai mi appariva irrisolvibile, mi fece gettare la spugna. Ero molto stanca. Ormai erano mesi che spendevo diversi giorni alla settimana tra dermatologi, analisi, psicologa. Ho avvertito profondamente il senso di inutilità e mi sono detta basta, non ne posso più. Tanto i capelli con le varie terapie a cui mi sottoponevo crescevano e puntualmente ricadevano.
Soprattutto quello con cui stavo combattendo in quel momento era l’incapacità di accettare me stessa e ogni disillusione non faceva che aumentare il senso di disistima e inadeguatezza. Non a caso ho deciso di aprire il blog. Speravo di confrontarmi con altre persone, che volessero uscire allo scoperto e parlarne con leggerezza, senza i filtri delle varie associazioni create ad hoc, che somigliano molto di più al muro del pianto e inducono alla depressione. Ma questa è una mia personalissima opinione.
Ciò in ogni caso non è accaduto, ho però cominciato a scrivere e a parlare di alopecia sempre meno.
Comunque il pensiero c’è, le difficoltà nella vita di relazione con il prossimo anche, voi che leggete questo blog ne siete a conoscenza,  ma paradossalmente molti che mi frequentano quotidianamente no.
Sebbene da quello che avessi letto, avevo già capito che grosse speranze per la mia patologia non ce ne fossero, mi sono detta che forse un giorno mi sarei pentita se non avessi almeno tentato. Ho telefonato al centralino dell’ospedale e l’appuntamento mi è stato dato pochi giorni dopo, proprio con il medico che sta sperimentando la nuova terapia. Che culo direte! Me lo sono detta anch’io, non potevo rinunciare a quest’incontro.
In un tardo pomeriggio della scorsa settimana, mi sono presentata all’appuntamento con tutte le riserve mentali necessari per affrontare l’ennesima delusione.
Prima di me c’era in attesa un ragazzo, piuttosto giovane, con un lieve accenno di calvizie. Poco dopo è uscito il medico, che si è presentato e si è scusato per il ritardo (lievissimo), che avrebbe protratto l’attesa.
Ciò ovviamente mi ha ben predisposta nei suoi confronti, era in assoluto la prima volta che un medico venisse personalmente a scusarsi per un lieve ritardo sull’orario previsto. In un ospedale pubblico poi!
Quando è stato il mio turno ho apprezzato enormemente la sua affabilità e la sua capacità empatica. Ancor di più ho apprezzato la sua onestà nel dirmi che nel caso di alopecia areata, purtroppo, la terapia non sta dando risultati. Quindi non se la sentiva di suggerirmela, dati anche i costi. Ha trascorso molto tempo cercando sul suo portatile i risultati delle ricerche condotte anche da equipe mediche di altri paesi. Ma come sospettavo, per me attualmente, novità serie e concrete non ce ne sono. Avrei dovuto decidere io con la consapevolezza degli scarsi risultati che si sarebbero potuti ottenere. Metteva a mia disposizione la sua competenza; di più non poteva fare perché attualmente costituisco bel materiale di studio, ma la sperimentazione è ferma per mancanza di fondi, quindi non rientravo nella possibilità di nessuno studio clinico. Insomma una cavia, che dovrebbe pagare per fare la cavia. “Chissà, da qui ad un anno, riprendendo gli studi magari … nel frattempo ci pensi, se se la sente e vuole comunque provare … non avrebbe nulla da perdere …” a parte soldi e non pochi, aggiungo io.
Cordiale stretta di mano e mentre sto uscendo mi dice “Ci sarebbe però una collega, che non esercita a Roma, ma è una delle migliori nel campo. Le posso suggerire il suo nome, provi a sentire anche lei, si confronti con un altro medico, credo sia giusto”.
Sono uscita dopo più di un’ora neanche troppo delusa. Diciamo che la delusione era messa in conto.
Il giorno dopo, però, ho cercato su internet informazioni relative al medico suggeritomi. Molte pubblicazioni, esercita tra gli Stati Uniti e l’Italia, professore associato dell’università di Bologna. Molte indicazioni rilevate da siti con scambi di opinioni tra sfigati miei pari e tante raccomandazioni sulla parcella che veniva indicata come decisamente salata.
Telefono.”Tanto anche stavolta”mi dico, “che ci perdo?”.
Dopo qualche squillo al cellulare indicato sul sito, risponde una voce di donna e subito mi precisa che è la segretaria e che sta raccogliendo gli appuntamenti “Perché, come lei saprà (no non lo so!), la professoressa viene in Italia solo ogni due mesi e gennaio è già tutto occupato, ma si fermerà fino al 6 febbraio” e inizia a sciorinarmi date e orari. Le spiego che non sono residente a Bologna e che per il momento volevo solo delle informazioni, che dovrei organizzarmi al lavoro e prendere un giorno di ferie e che quindi dovrò richiamare per confermare in base ai giorni e agli orari indicatomi. In ogni caso avrei gradito conoscere la parcella per il consulto. L’informazione mi viene fornita, ma la solerte segretaria ci tiene a precisare che se il problema fosse il giorno di ferie mi sarebbe stato fornito un giustificativo per il datore di lavoro. Di rimando spiego che sono ormai anni che il mio contratto non prevede che io possa usufruire di permessi per visite mediche e che quindi dovrei in ogni caso prendere un giorno di ferie, ma quello sarebbe stato il problema minore, mi interessava più il costo. A quel punto, vista la mia insistenza, non può fare a meno di rendermi edotta della parcella, che equivale a ben € 420,00! Sto per dire caz…. dico “Cavolo! Però, bella cifretta!”.
Lei non si scompone, d’altra parte, come mi aveva già annunciato, vengono da tutta Europa per un consulto con lei!

Nonostante le risposte già le avessi, ieri sera mi sentivo un po’ giù di corda. Mio figlio allora mi propone una cena al ristorante cinese. L’idea di una cenetta intima con lui mi pare una buona soluzione per uscire dalla tristezza che mi ha colta. Decido di affogare i brutti pensieri negli involtini primavera, ravioli al vapore, spaghetti di soia alle verdure e manzo caramellato.
Quando usciamo lui chiede i biscotti della fortuna. Mangio avidamente il mio, cercando di non ingoiare anche il minuscolo pezzettino di carta nascosto nel biscotto. Lo trovo e già sorrido all’idea dell’incomprensibile messaggio che leggerò, visto che le traduzioni lasciano molto a desiderare. Invece leggo “Il medico cura, ma la natura guarisce”. Io e mio figlio ci guardiamo e sorridiamo. Ma sì, confidiamo nella natura, visto che di alopecia areata totale pare che a parte lei, non ci capisca nulla nessuno.

 

 

 

 

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UN AIRONE A DICEMBRE …

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Quando al ritorno guardi gli scarponi e vedi che sono coperti di fango, senti le guance arrossate dal freddo e dal vento, le gambe molli per la fatica, lo zaino che improvvisamente è diventato pesante, pensi comunque che ne è valsa la pena. La levataccia mattutina, la corsa per non perdere il treno, le ore di camminata con il vento di tramontana gelido in faccia. Tutto ha un senso di fronte a quel meraviglioso dispiegarsi delle ali in volo. Quell’armonia e quella grazia sono in sintonia con la perfezione del creato. I tuoi compagni di camminata sono tutti lì con te, con il naso in aria a guardare gli aironi che si stagliano in cielo. In quei momenti pensi che hai fatto proprio bene ad essere lì, nonostante la fatica e la stanchezza che si scioglieranno sul treno, al ritorno. Il rosso del tramonto che accompagna il rientro è l’ultimo saluto ad una giornata carica ed intensa di colori e profumi.
Quando il treno si ferma al rientro nella stazione di Roma Termini hai una sorta di rigurgito per quella folla che trascina velocemente trolley e valigie, per quel frastuono di voci e annunci di arrivi e partenze. Gli scarponi sono pesanti, le gambe si trascinano, ma già pensi alla prossima camminata, ai compagni che scenderanno sorridenti dal treno, pronti ad iniziare un nuovo percorso, una nuova avventura. Una tavoletta di cioccolata passerà di mano in mano per sciogliere l’imbarazzo iniziale, una battuta ed una risata renderanno complici e la voglia di andare ad appagare lo sguardo e i sensi farà il resto. Sai già che al prossimo rientro ci saranno nuovamente scarponi da pulire, giacche a vento da asciugare e emozioni da sciogliere.

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ARTICOLO 2 – CONVENZIONE SUI DIRITTI DELL’INFANZIA

ARTICOLO 2 della Convenzione sui diritti dell’infanzia: diritti-bambini-2 (1)

Ogni bambino ha i diritti elencati nella Convenzione; non ha importanza chi è, né chi sono i suoi genitori, non ha importanza il colore della pelle, né il sesso, né la religione, non ha importanza che lingua parla, né se è un disabile, né  se è ricco o povero.

Lui era lì tutti i giorni a presidiare quel pezzo di marciapiede tra l’ufficio postale e il supermercato. Impiegava la sua energia correndo da un lato all’altro del marciapiede, unico spazio concessogli  sotto lo sguardo vigile della sua sorvegliante. La sua presenza era “necessaria”,  perché un bambino non lascia mai indifferenti, soprattutto se ha un sorriso accattivante e due occhi furbi e pieni di curiosità. Un bambino smuove sentimenti come la compassione.
Il suo orario era più lungo e noioso del mio. Quando uscivo dall’ufficio lui era ancora là, col suo faccino a scrutare i volti dei passanti.
La postazione scelta non era casuale. Vi era un passaggio continuo. Tante persone affannate a svolgere commissioni tra l’ufficio postale e il supermercato. Tanti adulti a cui tendere la mano, sfoderare un sorriso e ripetere le frasi di rito imparate a memoria in uno stentato italiano. A volte l’indifferenza dell’adulto si scioglieva in un accenno di sorriso o uno sbuffo infastidito o semplicemente uno scuotimento del capo, come a dire “siamo alle solite”. Altre volte si trasformava in un dolcetto comprato al supermercato, una moneta che scivolava nella manina aperta o un giocattolo, rimediato tra quelli ormai superflui e che risultavano ingombranti in casa.
Cosicché, poteva accadere, che arrivava una biciclettina rossa, quasi nuova, e la giornata assumeva tutta un’altra dimensione. Si poteva sognare che il marciapiede fosse una meravigliosa pista su cui pedalare e pedalare e pedalare…
I bambini scatenano sentimenti buoni e al di là dei nostri principi e delle nostre fermezze a volte ci lasciamo comunque andare, senza riflettere su quali potrebbero essere le conseguenze del nostro gesto. Allora dolcetti, abiti dismessi, ma ancora buoni, monetine, giocattoli  … E tutto ciò non cambia la situazione, mai, anzi la incancrenisce e non lascia scampo a colui che è condannato ad andare su e giù per quel marciapiede, senza poter mai interrompere la monotonia di tante giornate tutte uguali.
Tutto ciò avveniva sotto lo sguardo indifferente delle istituzioni, quelle stesse che dovrebbero applicare la legge, ma ormai è abbastanza evidente che la legge non è uguale per tutti.
Lui non sapeva che nessuno lo avrebbe mai riscattato dell’infanzia perduta. A lui nessuno racconterà mai, che sarebbe potuto andare a scuola come tutti gli altri bambini a giocare, ad imparare a scrivere e leggere. Nessuno gli dirà mai, che le istituzioni non hanno saputo fare nulla per lui, che le denunce non sono valse, che chi cercava con il cuore in gola di passare indifferente davanti alla sua insistenza e ai suoi sorrisi si è sentito impotente e pieno di rabbia. A lui tutto questo, quando sarà in grado di capire, non interesserà più e sapere o non sapere che esiste una convenzione sui diritti dell’infanzia non gli avrebbe comunque cambiato nulla. Gli adulti che avrebbe potuto e dovuto rivendicare i suoi diritti sono rimasti a guardare indifferenti e se non si fossero solo impastati la bocca di quei 54 articoli enunciati nella convenzione, ma avessero avuto la forza e il coraggio di applicarli davvero, allora sì che forse la pista su cui spingere quei maledetti pedali, sarebbe potuta diventare una strada lunga, con mete diverse.

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UNA SERA DI COMPLEANNO

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Ho approfittato del fatto che fosse il suo compleanno per proporgli di andare a vedere insieme uno spettacolo, anziché festeggiare con torta e candeline, che poi le candeline sono diventate davvero tante e usiamo simbolicamente quei tristi numeri, che sembra siano messi lì solo a rammentarci che sono davvero trascorsi tanti anni.

Mio padre quando eravamo piccoli ci portava al cinema a Natale, o con i biglietti scontati del cral a vedere qualche spettacolo. Eravamo tre figli, lavorava solo lui, e se oggi si parla di crisi, quando ero bambina non è che la vita fosse tanto più facile, almeno a casa mia. Andare tutti insieme al cinema costituiva l’evento per respirare l’atmosfera della sala buia e dei pop corn, con la felicità che ci avvolgeva quando si spegnavano le luci in sala e iniziava il film. Ancora oggi quando ci vado lo vivo con la stessa emozione.

Ho scelto uno spettacolo fra i vari che erano in programma questa settimana. Presa dall’entusiasmo di aver trovato i biglietti, dopo averli inseguiti per anni, non mi sono chiesta egoisticamente se poteva rientrare nel genere che a lui piace. Ho pensato “cavolo, a me piacerebbe da matti!” ed ho osato.
Non avevo anticipato molto, anzi a dire il vero nulla. Come introdurli? E’ un balletto, anzi no, è una magia di suoni, colori e corpi che armoniosamente si muovono. Ho lasciato fare al caso. Se si fosse annoiato mi sarebbe dispiaciuto. Il rischio c’era, ma perché non sperimentare qualcosa di diverso. In sala quando è iniziato lo spettacolo mi sono fatta piccola, piccola ed ho spiato la sua reazione di fronte alla musica e ai colori che si alternavano sul palco. I Momix.
Io mi sono lasciata rapire affascinata dalle coreografie e dalla bravura dei ballerini e sinceramente per un’ora e mezza ho pensato solo che per me condividere quel momento con lui, voleva dire anche aprirgli uno spiraglio sul mio mondo, eludendo preconcetti e falsi intellettualismi. Non sempre c’è da capire, a volte basta lasciarsi andare.

Alla fine dello spettacolo mi volto a cercare il suo sguardo, vedo il suo entusiasmo bambino, sento l’applauso caloroso che concede agli artisti e sono felice. Felice, che lui uomo semplice, abbia accettato con curiosità ed entusiasmo la novità. Felice nel comprendere che se oggi sono così curiosa ed entusiasta nei confronti del nuovo lo devo anche a lui, che magari non poteva permettersi di offrirmi materialmente oltre quel biglietto di cinema parrocchiale, ma che mi ha offerto tanto di più, perché la curiosità è il succo della vita. E vederlo prendere per mano mio figlio all’uscita, proprio come prendeva per mano noi, quando uscivamo dal cinema, e parlare fitto fitto per avere un confronto con lui, mi ha emozionata. E l’emozione vera non è data solo dal vedere o meno uno spettacolo, un luogo, una città, assaggiare un cibo nuovo, ma da come ci si approccia, con quale e quanta curiosità ci si avvicina.

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STRANGE FRUIT

Il giovedì sera c’è un appuntamento importante in casa. Io ho appuntamento con mio figlio. Mio figlio ha appuntamento con  “X Factor” e con me. E’ un momento nostro, come quando era  piccolo e guardavamo alla TV i suoi cartoni preferiti. Ora adolescente sceglie da solo i suoi programmi e sono contenta quando decide di coinvolgermi chiedendo la mia complicità. Probabilmente sarebbe una di quelle trasmissioni di cui a mala pena conoscerei l’esistenza. Con lui assume un sapore diverso e attendo con ansia ed emozione il verdetto del pubblico nei riguardi di quel concorrente, piuttosto che l’altro. Mi diverto a seguire il backstage in cui i ragazzi si raccontano e puntata dopo puntata mi ritrovo, mio malgrado,  ad essere coinvolta a tal punto, che quasi mi dispiace quando qualcuno viene escluso. Tra l’altro quest’anno ci sono dei concorrenti niente male, delle voci interessanti. Così, pur non essendo il genere musicale che prediligo, alla fine lo segue anche io con curiosità.
Il tema dell’ultima puntata era “We are 1 contro la discriminazione”.

C’è una ragazza che a mio parere ha una voce molto interessante e che nel proporre la canzone di Billie Holiday “Strange Fruit” , poesia scritta da Abel Meeropol e da lui stesso musicata, mi ha decisamente emozionata, per il testo e per l’interpretazione molto sentita.

Abel Meeropol

 

 

 STRANGE FRUIT – Abel Meeropol

Southern trees bear a strange fruit,
Blood on the leaves and blood at the root,
Black body swinging in the Southern breeze,
Strange fruit hanging from the poplar trees.
Pastoral scene of the gallant South,
The bulging eyes and the twisted mouth,
Scent of magnolia sweet and fresh,
And the sudden smell of burning flesh!
Here is a fruit for the crows to pluck,
For the rain to gather, for the wind to suck,
For the sun to rot, for a tree to drop,
Here is a strange and bitter crop.

 
 

Ieri sera tornando a casa, dopo una piacevole serata, sono passata con la macchina vicino ad una ex sede della motorizzazione, attualmente occupata. Vi erano molti immigrati. Molti di loro venivano condotti da una persona, che non sono riuscita ad individuare quale ruolo avesse, lungo il marciapiede, non so verso quale luogo. C’erano delle volanti della polizia, ma il tempo per capire cosa stesse avvenendo è stato quello dello scatto del semaforo da rosso a verde. Mi sono allontanata con l’immagine di questa colonna di persone, nel buio e nel silenzio della notte, con l’impressione che qualcosa di importante stesse avvenendo a due passi da me e che io potessi essere complice silenziosa della risoluzione di un problema scomodo, che come spesso accade, viene affrontato semplicemente facendolo sparire dalla vista di chi ne prova fastidio. Mi sono venuti in mente gli ultimi fatti di cronaca, questi atti di intolleranza verso chi è stato individuato come l’elemento e la causa di alterazione di una falsa quiete. Questo bubbone sociale, che prima o poi doveva scoppiare, perché la soluzione non può essere quella di rimuovere dalla vista ciò che ci disturba, relegandolo nella periferia di una città al collasso, e restando a guardare ciò che accade. Mi sono sentita triste e impotente. E la colonna sonora che ha concluso la mia serata è stata la canzone che avevo ascoltato il giorno prima e la voce di Billie Holiday si è insinuata nella mia testa e non riesco a mandarla via.

 

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ROMAIN PUÉRTOLAS

Ho terminato da poco di leggere questo libro, di cui ho trovato la recensione su un blog che seguo.
Sicuramente mi ha indotta alla lettura la recensione ben scritta, ma ha giocato tantissimo il titolo “L’incredibile viaggio del fachiro che restò chiuso in un armadio Ikea”.
Non so quanti di voi si siano cimentati nel montaggio di un mobile Ikea. Chiunque l’abbia fatto potrà raccontare qualche aneddoto divertente al riguardo. Tipo un chiodo che avanza, se non addirittura un ripiano che non si sa più come incastrare. Pomeriggi con pezzi sparsi per il corridoio e le istruzioni incollate al naso per decifrare se il pezzo A è realmente quello che avete sotto i vostri occhi, o il pezzo che avete archiviato come B, potrebbe in realtà essere il pezzo A.
Insomma ho immaginato che se anche un fachiro è rimasto chiuso in un armadio dell’Ikea e nonostante le abilità che almeno, nel mio immaginario riesco a conferirgli, non sia riuscito a venirne fuori, allora tutto sommato quel pezzo avanzato della scrivania a cui non ho mai trovato collocazione, non è poi una tragedia.

Non vi svelerò il motivo del perché il povero fachiro si ritrova chiuso nell’armadio. Chi volesse qualche dettaglio può leggere la trama e la recensione cliccando sulla copertina:

l'incredibile viaggio

Vi assicuro che mi sono fatta un sacco di risate. E’ un libro di cui ho gradito l’ironia, la novità nel narrare e trattare un argomento molto attuale, molto discusso e con risvolti discutibili, soprattutto in questi giorni a Roma, con delicatezza e intelligenza. Mi sono innamorata dei personaggi e ovviamente non potevo non subire il fascino del fachiro.

Vi auguro buona lettura.

p.s. mi è pervenuta ora la segnalazione di questa recensione, che vi suggerisco di leggere facendo clic qui.

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SWITCH OFF

switch-off-when-not-in-use-safety-signs-p3429-118593_zoomL’ho incontrato qualche giorno fa, nel corridoio del piano terra, mentre andavo a consegnare la posta all’ufficio spedizioni. All’inizio mi sono concentrata sul volto, o meglio su ciò che aveva indosso, sul viso. Ho pensato ci fosse una fuga di gas e lui fosse un operaio, anche se  la maschera che indossava lasciava presagire una catastrofe ben più grave. Aveva una maschera antigas, di quelle militari, quelle che immagini vengano adottate per far fronte ad una guerra batteriologica. Mi è passato accanto, indifferente a tutto, come se fossi trasparente, e come se il suo abbigliamento fosse la cosa più naturale del mondo. Anche questa estate l’avevo incrociato. Portava un passamontagna che lasciava intravedere solo gli occhi. Ho pensato avesse un problema alla pelle e comunque anche allora l’incontro non è stato dei più rassicuranti. E’ un collega piuttosto giovane, del settore “tecnologia e informatica”. L’anno passato era venuto nella mia stanza per apportare aggiornamenti al sistema operativo. Un tipo poco incline alla conversazione, schivo. Ma questo non lasciava presagire il cambiamento che c’era in atto. Almeno, non in quel contesto. La mattina viene al bar a consumare cappuccino e cornetto. In quell’occasione, lontano da sguardi indiscreti toglie la maschera. La cosa incredibile è che tutti facciamo finta che il suo look sia normale e passi inosservato. Poi nelle stanze se ne parla, anche con una certa preoccupazione. Ma pare nessuno si senta autorizzato ad affrontarlo.
La sua mente ha avuto uno switch off. Quando esattamente? Nessuno si è accorto di ciò che stava avvenendo? E se anche i suoi colleghi se ne fossero accorti, cosa poter fare?

Da qualche mese è arrivato un collega. Il suo settore è stato trasferito nella nostra sede. Il luogo non è certo dei migliori, soprattutto se sei un po’ depresso e se ti senti “fottuto” nella possibilità di andare in pensione a causa della famosa legge Fornero.
I primi tempi, appena arrivato, l’argomentazione principe alle 7,20 di mattina, mentre aspettavamo la navetta che ci portasse al lavoro, era la riforma pensionistica. Ciò avveniva puntualmente, tutti i giorni, anche di fronte al “sacro” caffè mattutino. Per me è un argomento talmente lontano dai miei progetti di vita, che cercavo di condurre la conversazione verso altro. Per un po’ ci sono riuscita, poi ha deciso che come interlocutrice ero un fallimento, non l’ascoltavo più molto attentamente, non rispondevo ai suoi quesiti e non ero abbastanza addolorata e depressa da tirare fuori il livore nei confronti della Fornero, da dichiarami degna della sua attenzione.
Ora è qualche settimana, che lo incrocio all’uscita della metro, con lo sguardo che vaga nel vuoto, come se seguisse dei pensieri solo suoi. Mi fa tenerezza. Mi fermo sempre per offrirgli il caffè, disposta anche a farmelo andare per traverso prestando attenzione alle sue lamentele. Ma ho scoperto che lui esce di casa sempre molto prima di me e arriva sempre molto prima di me. Quindi al mio passaggio ha già consumato un primo cappuccino e cornetto, un caffè, una sbirciatina all’edicola e poi chissà perchè si è rintanato nei corridoi della metropolitana. Nonostante ciò, è sempre il primo a salire sulla navetta, si siede sempre allo stesso posto, davanti, il più davanti possibile. Panica quando qualcuno più veloce di lui, riesce a salire e a “rubargli” il posto. Arriva davanti al badge e passa il cartellino tre volte, su tre badge diversi, per assicurarsi che il suo ingresso sia “davvero” stato preso in considerazione dalla macchinetta. A passo sicuro si dirige verso l’ascensore, non scende mai al bar, mangia in stanza. Prima intasava la posta segnalando tutte le iniziative riguardanti la riforma sul sistema pensionistico. Ora ha rinunciato anche lì a stabilire un possibile dialogo. Swhitch off …..

L’altro giorno di fronte alla macchinetta del badge, il mio collega di stanza mi ha guardata e indicando la sequenza delle tre timbrature mi ha detto “Hai notato anche tu?…” Io ho risposto “Sì, e mi dispiace molto, ma che fare?”. Ho timbrato anch’io. Poi mi sono voltata e gli ho detto “Devi farmi una promessa. Nel caso anch’io cominciassi ad avere comportamenti strani, ripetitivi, nevrotici devi promettermi che farai del tutto per farmelo notare”. Lui ha sorriso e mi ha risposto “Sicuramente troveresti una giustificazione al tuo comportamento, e credimi, ti sembrerebbe tutto molto razionale. Cosa potrei farci …”. Giusto … Switch off …….

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ESSERE BAMBINI (per concessione di Topper Harley)

girotondo

Questa estate, all’uscita della metro, c’erano due ragazzini che distribuivano dei foglietti. Ne ho preso uno e mi ha incuriosito lo stile semplice e scarno, che tanto ricordava i vecchi ciclostile. Mi sono fermata a leggere e probabilmente meno intimiditi dalla mia curiosità, si sono avvicinati. “Siamo della casa famiglia che è qui, nella piazza, a fianco alla chiesa. E’ un invito per la festa che faremo questa sera in terrazza. Abbiamo allestito uno spettacolo e ci farebbe piacere se venisse, anzi se venissero in tanti, ‘quelli di fuori’ per assistere alla recita”. Ho assicurato la mia presenza. La sera sono andata. Sulla porta di ingresso c’era un cartello di benvenuto e dei palloncini. Ad accogliermi un piccolo cucciolo d’uomo, molto compito nel suo ruolo, che mi ha condotta lungo le scale per raggiungere l’ascensore. Mentre salivamo annunciava a gran voce la mia presenza. “Padre Paolo ci sono gli ospiti (eravamo in due!), li accompagno di sopra”. La voce tradiva l’emozione e il suo bel viso curioso, contrastava con la spartanità degli arredi e quel colore bianco pallido, che rimandano le luci a neon. Siamo saliti in terrazza. Le sedie erano in parte occupate, ma dopo un po’ capivi,  dalla familiarità con cui i ragazzi si rivolgevano al pubblico presente, che si trattava per lo più di operatori, di volontari e di familiari. Avevano organizzato dei giochi sul genere di quelli che immagini vengano proposti nei villaggi turistici. Al termine di ogni gioco il vincitore, o gli eventuali vincitori, ricevevano come premio un biglietto del cinema (molto ambito). Terminati i giochi è iniziato lo spettacolo. Non era una vera recita, era più simile ad un saggio di fine anno, con esibizione canora e ballo.

Credo sia stata una bella festa, anche se, nonostante io ce l’abbia messa tutta nell’applaudire e mostrare il mio entusiasmo, non sia stato sufficiente per smorzare la delusione per la scarsissima partecipazione di “quelli di fuori”. Le emozioni che si sono sommate in quelle poche ore condivise con loro, le porto ancora dentro. Come il ricordo di una bruciatura, piccola ma non innocua. I volti che ho conosciuto, i sorrisi e l’ilarità semplice e spontanea di quei ragazzi difficilmente la dimenticherò. C’erano anche bambini, piccoli. In particolare uno, paffutello, biondo. Durante un gioco cercava disperatamente degli oggetti da portare come “trofeo”, perché la gara prevedeva che venisse eletto vincitore chi riusciva a raccoglierne di più. Molti avevano il papà o la mamma, o il nonno, e per loro era più facile. Lui non aveva nessuno.

Ieri sera sono incappata nel bel racconto di Topper Harley. Mi ha affascinata la sua scrittura e ancor di più il tema del racconto “Essere bambini”. Leggerlo mi ha ricondotta alle emozioni che vi ho descritto e ho pensato che mi avrebbe fatto molto piacere voi lo leggeste.
Anche io non ho esperienza riguardo le case famiglia. Ho letto i commenti che sono stati aggiunti al suo articolo e alcuni li condivido appieno. Ma è pur vero che a volte basta poco per abbattere le barriere fra “quelli che sono fuori” e “quelli che sono dentro” e se questo serve per riconquistare il sorriso di un bambino penso ne valga la pena. Ovviamente mi sono chiesta cosa potrei fare per non restare solo l’osservatrice di una serata, la cui partecipazione ha fatto bene a loro, ma ancor di più a me,  e credo sia solo questione di volontà e di un pizzico di coraggio.

Ho chiesto a Topper di poter pubblicare il suo racconto, sono stata autorizzata.
Vi consiglio di seguirlo sul suo blog  http://www.topperharley.com.
Questo è il racconto postato il 31/10/2014 da Topper Harley, che ringrazio per la concessione.

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” Quando ci raccontano di quel ragazzino che nemmeno per il suo compleanno ha visto la mamma, restiamo spiazzati. Nel silenzio della stanza abbassiamo gli sguardi per il tempo necessario a staccarci dalla realtà ed assorbire il disagio della notizia, forse anche scontata visto il contesto in cui ci troviamo ma non per questo meno cruda. Intravedo un paio di occhi lucidi che cercano invano una via di fuga. Del bambino sappiamo che vive là da mesi perché la madre non lo vuole più, o forse non lo ha mai voluto, e il padre non c’è mai stato. Hanno festeggiato il compleanno sperando che lei si facesse viva, dato che le era consentito, ma evidentemente avrà avuto di meglio da fare.
Lui è solo uno dei bambini ospitati in quella casa-famiglia e probabilmente è anche uno dei più fortunati. Vivono lì per mesi, a volte per anni, fino alla maggiore età, traguardo oltre il quale devono iniziare un nuovo percorso ad ostacoli, forse ben più ostico. La casa è una struttura magnifica, curata in ogni particolare, dallo stile rustico, circondata dal verde, con ambienti enormi, camere spaziose, tetti alti. E soprattutto un calore e un’atmosfera che sembrano fuoriuscire dalle pareti, dandole una parvenza di luogo animato, che respira, tipo le case dei film horror, se non fosse che l’horror stavolta è fuori e dentro è il rifugio da una vita ostile.
Di ragazzini, che chiamo così perché vanno dagli otto ai sedici anni di età, ne vediamo qualcuno in giro. Non ci vengono presentati perché non devono sapere che siamo lì per loro, non adesso almeno. Stiamo presentando un progetto che, se approvato, gli permetterà di vivere un’esperienza unica, lontana anni luce da ciò a cui sono abituati: una gita. Una cosa scontatissima per molti bambini tranne che per loro. Una sorpresa. Lavoriamo per regalargli una settimana in montagna da raggiungere viaggiando in macchina, insieme, con le pause pipì all’autogrill, le canzoni della radio, il sonno, gli scherzi. E poi l’arrivo, se va bene, dove ci sarà la neve, i giochi e, che so, i pupazzi, le battaglie, gli slittini improvvisati, forse anche un corso di sci. Saranno comunque loro a scegliere, a decidere cosa voler fare, per la prima volta da quando sono nati. I volontari della casa-famiglia sono già in fermento e anche noi. Ci proviamo, siamo fiduciosi. Stiamo già avviando la raccolta di attrezzature, scarpe e scarponi, tute, giubbotti e tutto il quanto possa servire per la partenza. Se ci daranno i fondi e io sono quasi certo che ce li daranno perché è la mia azienda che finanzia i progetti e faremo di tutto per far passare il nostro, incontreremo e conosceremo i bambini. Ci dedicheremo ai preparativi, giocando, senza troppo impegno perché è la spensieratezza che, prima di tutto, vorremmo gli fosse donata.
Personalmente non ho potuto non confrontare questa nuova avventura in cui sono stato felicemente coinvolto con quella che richiede l’impegno in Africa. Lì non hanno un grande futuro né molte aspettative, sia di vita sia di obiettivi a breve termine. Non sanno nemmeno che è il futuro e il presente è fatto di stenti, pochi stimoli e pochi svaghi, perché le giornate sono incentrate sulla ricerca del minimo per sopravvivere. L’unica cosa che però hanno quei bambini è il sorriso e, fino ad una certa età e certo non tutti, oserei dire proprio la spensieratezza. I bambini della casa-famiglia hanno altre esigenze. Materialmente possono avere tutto, vestiti, giocattoli, libri, computer; studiano, svolgono attività utili alla crescita, sono seguiti da chi vuole farli sentire normali e, in alcuni casi, anche da uno psicologo, vengono avviati ad una professione quando si avvicinano ai diciotto anni. Quello che gli manca e gli è sempre mancato è l’essere bambini, cosa che capita solo una volta nella vita e non si può recuperare perché poi si cresce e, se non hai imparato a ridere da piccolo, è difficile che tu possa farlo da grande.”

(dal blog http://www.topperharley.com)

 

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THE TRUMAN SHOW – SEQUENZA DI UN’ABITUDINE MATTUTINA

 

The Truman show

 

La mattina esco quasi sempre alla stessa ora per andare al lavoro. Non è solo questione di abitudine, ma necessità. Tutto sincronizzato per riuscire a prendere le due linee della metropolitana e raggiungere in orario la navetta aziendale che mi conduce al posto di lavoro. Se non giungessi puntuale all’appuntamento con la navetta, l’alternativa sarebbe un autobus periferico con orari improbabili. Ciò è cadenzato anche da incontri con persone, che a loro insaputa, rientrano nello svolgersi di un cliché mattutino, in cui  la loro presenza diventa quasi necessaria,  per definire se si è in orario sulla tabella di marcia.

La prima persona che incontro è la signora della tabaccheria,  sita a pochi metri dal portone di casa. Le nostre strade si incrociano mentre attraversiamo le strisce pedonali.
Subito dopo vi è il signore con un barboncino bianco, poi il camion della nettezza urbana, che a onor del vero non sempre è puntuale,  fino a raggiungere il marciapiede successivo dove, all’altezza di una scritta sul muro nel pieno stile Moccia “Sopra di noi l’oceano…”, sopraggiunge un ragazzo, che procede a passo veloce,  nel senso inverso al mio.
Più avanti vi è un negozio di alimentari, proprio all’angolo. A volte con il proprietario non siamo ben sincronizzati,  perché invece di trovarlo sulla porta ad attendere il furgoncino della consegna del pane, trovo che sta ancora parcheggiando lo scooter.
L’ultimo incontro, poco prima di raggiungere l’ingresso della metro, è  con una signora che esce trafelata dal portone, in compagnia di un ragazzo.

Stamattina mentre riflettevo su tutto ciò sono stata colta da un attacco di panico. Mi sono chiesta se anche io fossi su un set cinematografico stile “The Truman show” e  la sequenza delle immagini non fosse altro che l’effetto di un copione scritto da qualcuno a mia insaputa e tutti i protagonisti non fossero altro che delle comparse.
Mi è venuta voglia di gridare “Ohi ma siete veri?!, chi vi paga per inscenare tutto questo?!”. Mi sono fermata guardandomi intorno con fare circospetto e mi sono detta “Ora rallento il passo e vediamo se gli eventi si susseguono nello stesso modo.” Se così fosse  tutto dovrebbe comunque avvenire in perfetta sincronia al mio passaggio. Quindi in ordine di apparizione:  la tabaccaia, l’uomo col cane, il camion della nettezza urbana, il  ragazzo, il droghiere, la signora trafelata e  da ultimo la ragazza con lo zaino, che tutti i giorni, mentre sto scendendo le scale della metro, sbucando non so da dove, mi sorpassa e velocemente viene inghiottita nel corridoio che porta alla scala mobile.
Ho avuto paura di un esperimento simile. Potevo creare sconcerto in chi stava aspettando il mio passaggio e che,  differentemente da me, vive in maniera rassicurante questi incontri così sincronizzati.
Mi sarebbe dispiaciuto deludere qualcuno. Allora ho mantenuto il solito passo ed ho pensato, che domani, così tanto per mettere in difficoltà gli operatori del set  nel proporre le loro inquadrature,  cambierò percorso come atto di ribellione, proprio come nel film, quando Truman, avendo scoperto l’inganno, preferisce fuggire dalla calma rassicurante della sceneggiatura  e decide che l’imprevedibilità nella vita sia molto più eccitante del riproporsi di eventi tutti monotonamente uguali.

p.s. Ma poi, per chi tutti i giorni prende autobus, metro, treno, pullman la vita è davvero così prevedibile?!!!

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INCONTRO – F.GUCCINI

INCONTRO

Fino a qualche anno fa i mercatini dell’usato venivano chiamati mercatini dell’antiquariato. Tutti indistintamente, venditori e acquirenti, si improvvisavano estimatori e conoscitori di antichità. Così oggetti che fino a qualche anno, se non addirittura, qualche mese prima, erano stati riposti in cantina o che avevano sostato nelle credenze di famiglia, acquisivano un valore inusitato, dettato solo dalla moda e dalla bramosia di possesso dei tanti radical-chic frequentatori . Ricordo dei barattoli dello zucchero e caffè di porcellana, che avevano accompagnato la mia infanzia, ritrovati in un mercato e di aver scoperto solo in quel momento che mia madre disfacendosene, aveva perso un capitale. Il venditore mi assicurava il loro valore, definendoli oggetti d’epoca. Alla mia domanda a quale epoca appartenessero, rispondeva saccente “Fine 800, se vede no!”. A quel punto mi chiedevo seriamente se appartenessi a quell’epoca e solo allora ne stavo raggiungendo la consapevolezza  e in tal caso se anch’io avessi acquisito, a mia insaputa, un valore particolare, d’epoca. Ora le cose sono cambiate. Esistono sempre i mercatini dell’antiquariato, ma nella maggior parte dei casi si è tornati all’originaria definizione “usato”, “vintage” (quando si vuole dare una definizione più sofisticata) oppure “riciclo o baratto”.

Domenica ho passeggiato fra i banchi di uno dei tanti mercatini. Periferia o centro non cambia molto, la merce è molto simile. La differenza è che nei mercatini del centro, gli stessi oggetti sono venduti ad un prezzo più alto.
Il mercato di cui parlo si svolge al Pigneto, quartiere decisamente popolare.
Per lo più le cose esposte erano oggetti privi di valore,  oggetti superflui  comprati in un momento in cui il superfluo ce lo potevamo permettere ancora tutti, o quasi.
Forse a conti fatti erano in numero superiore gli espositori dei possibili acquirenti.

Mentre camminavo mi sono sentita chiamare. Una vecchia amica, persa di vista qualche anno fa. Le ho chiesto “Anche tu qui a passeggio?” , “No, sono qui con un’amica. Cerchiamo di vendere qualcosa. Sai è da un po’ che ho perso il lavoro, sono separata e andare avanti con un figlio è diventato molto difficile”.
All’improvviso ho guardato quegli oggetti con rispetto e mentre lei mi raccontava “la sua vita in poche frasi”, io volgevo lo sguardo su “stoviglie color nostalgia”.
Cercavo di trovare tra le varie cose esposte, quale potesse essere per me la meno inutile e per lei la più utile economicamente da vendere.
Ho comperato delle tazzine da caffè e mi sono stati offerti dei cucchiaini omaggio. Sapevo già che quelle tazzine avrebbero trovato una difficile collocazione… “ti ho scritto è già un anno …” continuava la nostra conversazione.
Ho ripreso la mia passeggiata un po’ intristita. Guardando i banchi mi è sembrato che i volti fossero tutti pieni di aspettative. L’aspettativa non mi è sembrata più quella di chi abbia cercato un divago domenicale, ma di chi cerchi l’occasione per guadagnare qualcosa e dare una svolta alla settimana che si va preparando.
Il volto delle ragazze, studentesse fuori sede. O la signora con i figli, che si sono portati i libri per studiare. O l’anziana che si aggirava alla ricerca di un paio di stivali.

“… I nostri miti morti ormai, la scoperta di Hemingway, il sentirsi nuovi, le cose sognate e ora viste …”
Già, ma quali sono le cose viste … Sono andata via sulle note di un brano della penguin cafe orchestra, magistralmente eseguito da due ragazzi (anche loro universitari? o diplomati al conversatorio e disoccupati?). Mi sono fermata per lasciare una moneta e uno dei due mi ha ringraziata ed io ho risposto “No, grazie a voi …”

“…E pensavo dondolato dal vagone, cara amica il tempo prende il tempo dà, noi corriamo sempre in una direzione, ma quale sia e che senso abbia chi lo sa …”

 

 

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ALEJANDRO JODOROWKY

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Por osmar

Mi piace sviluppare la mia coscienza per capire perché sono vivo,

che cosa è  il mio corpo e cosa devo fare per cooperare con i disegni dell’universo.

Non mi piace la gente che accumula informazioni inutili e si crea false forme di condotta, plagiata da personalità importanti.

Mi piace rispettare gli altri, non per via delle deviazioni narcisistiche della loro personalità, ma per come si sono evolute interiormente.

Non mi piace la gente la cui mente non sa riposare in silenzio,

il cui cuore critica gli altri senza sosta,

la cui sessualità vive insoddisfatta,

il cui corpo s’intossica senza saper apprezzare di essere vivo.

Ogni secondo di vita è un regalo sublime.

Mi piace invecchiare perché  il tempo dissolve il superfluo e conserva l’essenziale.

Non mi piace la gente che per retaggi infantili trasforma le bugie in superstizioni.

Non mi piace che ci sia un papa che predica senza condividere la sua anima con una “papessa”.

Non mi piace che la religione sia nelle mani di uomini che disprezzano le donne.

Mi piace collaborare e non competere.

Mi piace scoprire in ogni essere quella gioia eterna che potremmo chiamare dio interiore.

Non mi piace l’arte che serve solo a celebrare il suo esecutore.

Mi piace l’arte che serve per guarire.

Non mi piacciono le persone troppo stupide.

Mi piace tutto ciò che provoca risate.

Mi piace affrontare, volontariamente, la mia sofferenza, con l’obiettivo di espandere la mia coscienza.

Alejandro Jodorowsky
 
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ITALY IN A DAY

 

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Dopo tanti anni che lavori al pubblico, con il pubblico, per il pubblico, se vuoi, riesci ad affinare percezioni nei confronti dell’altro, che ti aiutano a guardare oltre la sola immagine che ti è davanti. Se vuoi capisci che, a volte,  dietro una domanda banale c’è “una richiesta”. A volte la richiesta è quella di essere “percepito” e riconosciuto come persona. È qualcosa che ho capito con il tempo e con la necessità di un cambiamento, mio innanzitutto, che a dire il vero, con il passare degli anni, mi è diventato pesante e difficile. Quando si ha a che fare con le persone in un ufficio pubblico,  devi superare l’impatto negativo dove gli altri pretendono di essere riconosciuti come persone, mentre tu per gli altri rappresenti le istituzioni. Le istituzioni dove vigono regole, divieti, rigidezza e “disumanità”. Tutto ciò a volte è vero e diventa necessario per non farsi “inghiottire” dai problemi degli altri. Perché ogni persona che si presenta allo sportello ha una storia. Allora devi avere la consapevolezza che sei lì a svolgere un ruolo, che di sociale non ha nulla, ma se vuoi e puoi, potresti anche renderlo tale.

Ho visto il film-documentario di Salvatores “Italy in a day”, dove la capacità del regista è stata quella di selezionare i video arrivati alla Rai e di averli sapientemente montati, creando un film fatto prevalentemente di volti e persone. Guardando quei volti passare sullo schermo, mi è venuto da pensare ai tanti volti intravisti o conosciuti, che hanno attraversato la mia vita. Il più delle volte senza lasciare alcun segno. In molti casi mi sono trovata depositaria di uno “squarcio” di storia della loro vita, raccontata di fretta, in poche frasi, o “depositata” in più riprese, perché in un ufficio postale è così. Alcuni hanno frequentazione giornaliera. Il lavoro stesso li conduce lì. Per molti diventa il momento di incontro, maledetto quanto vuoi perché nella maggior parte dei casi vengono a pagare, ma paradossalmente è anche un momento di condivisione con chi incontri. Così ti raccontano dei figli, della famiglia, se domenica sono andati a trovarli,  se c’è stato il compleanno di qualcuno. Se sono arrabbiati, delusi, felici per una nascita, tristi per una perdita.

Mi sono chiesta cosa abbia spinto tante persone a filmare un giorno della loro vita, anche solo cinque minuti. Non credo sia solo necessità di protagonismo. Per molti è un modo per dire “ci sono”, e magari senza pudore raccontare la propria solitudine nel prepararsi un piatto di pasta, il dolore di fronte alla casa distrutta dall’alluvione, la voglia di credere in qualcosa di positivo, il sentirsi appagati di fronte al sorriso di un figlio.
Spesso le storie che ho ascoltato erano storie di solitudine, di paura della solitudine. Di dignità che nascondeva un disagio reale, anche economico. Di cui non si parlava con nessuno. Perché a volte ci si sente davvero soli e smarriti, ma urlare la propria disperazione vuol dire mettersi a nudo, dimostrare quello che si è, non paventando un’immagine che non ci appartiene più.

Così accade che la signora che ha appena pagato la bolletta della luce, si accasci sulla sedia prima di uscire, e quando tu la sostieni e le tieni la mano, riesca a raccontarti che sono giorni che non mangia, per aiutare quei nipoti piccoli, a cui è morta la madre da poco, ma che lei con la sua pensione proprio non ce la fa a sostenere, perché mangiano come lupi, ma la bolletta andava pagata. E la vergogna la porta a non chiedere nulla, perché improvvisamente si scopre “povera”. O la signora che a metà mese viene a riscuotere la pensione, già riscossa ad inizio mese e purtroppo finita. Che proprio non si capacita e anche lei non mangia da qualche giorno, e vergognosamente ti racconta che nella busta che ha con se’ c’è una bottiglia di acqua e ruba le bustine di zucchero nei bar, andando avanti con acqua e zucchero. Chi ti porta la marmellata, perché “Tanto con mia figlia non parlo più da anni, e quindi la faccio, ma poi lei non viene, e allora mi fa piacere che sia lei a mangiarla, che ha l’età di mia figlia”. Oppure il signore che tra un conto corrente e l’altro, mi aveva confidato la sua grande passione, i plastici dei treni. Ed io gli avevo a mia volta confidato che da piccola sopportavo l’infermiera che mi faceva la punture, solo perché il marito aveva una stanza con un plastico di un trenino che mi permetteva di sbirciare sull’uscio. E allora un giorno prende il numero, fa la fila, e quando è il suo turno poggia sul bancone un album enorme, con le foto dei suoi trenini e i suoi plastici, per condividerli con me. Ovviamente la fila dietro inizia a rumoreggiare prima ancora che apra l’album e quindi mi vedo costretta a dire che forse avremmo trovato un’occasione diversa per vederle, ma lui con l’aria mesta mi dice “ma ho fatto la fila, come tutti!”.

Ecco, l’Italia è anche questa. Fatta di persone, di uomini e donne, che inviano video in cui ballano, corrono, cantano, riprendono un tramonto dalla finestra, ma sono anche piene di incertezze, di “buchi neri”, di voglia di uscire dal senso di inutilità della propria vita e ricominciare a darle un senso. Allora racconti, ti racconti e probabilmente questo ti fa sentire meno solo. Probabilmente se ci raccontassimo, scopriremmo che anche il vicino di casa soffre come noi perché il figlio non telefona. O che il pane che ieri abbiamo gettato nella spazzatura poteva aiutare qualcuno che faticosamente va avanti  per mantenere la propria dignità e tutte le mattine esce e passa nei bar a rubare bustine di zucchero. Non è facile. A volte chi si racconta, si pente subito dopo averlo fatto. Abbassa la testa e va via per non tornare più. A volte decidono che dopo confidenze così importanti fai parte della loro vita e si stabilisce un filo di tenerezza che difficilmente si snoderà. Come i tanti ebrei, che nel ghetto di Roma, mostrandomi il numero sul braccio, mi hanno chiesto di non dimenticare.

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Assestamento emotivo

Francesca Pratelli

assestamento emotivoLe condizioni di equilibrio stabile, instabile e indifferente si possono esaminare dal punto di vista dell’energia di potenziale dei corpi. Un corpo è in equilibrio stabile se, spostandosi di poco dalla sua posizione di equilibrio, tende naturalmente a ritornarvi; un corpo è in equilibrio instabile quando, spostandosi di poco dalla sua posizione di equilibrio, tende ad allontanarsi; un corpo è in equilibrio indifferente quando, spostandosi di poco dalla sua posizione di equilibrio, rimane stabilmente nella nuova posizione. É così. Quando la mente, l’anima, protetta dall’involucro di carne e ossa, reagisce alle interferenze che, in un certo senso, la destabilizzano, si sposta altrove per autodifesa. Basta poco, a volte, anche un lieve assestamento emotivo; un evento non desiderato, imprevisto o mai verificato, per fare vibrare, sollecitare una scossa sismica interiore, per far franare una speranza, per sommergere un sogno. Ci si adatta, cercando di assestare l’equilibrio interiore…

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PICCOLE NOSTALGIE

CAMPO DE FIORI

Mi piace immergermi nella promiscuità della gente che passa, veloce, e lascia dietro se’ odori, colori, scie di parole con idiomi diversi, lontani. Mi piacciono i porti, dove tradizioni, culture e caos si intrecciano. Mi piace Piazza Vittorio, perché un porto non lo è, ma si ha l’impressione di essere appena sbarcati da una nave.

Mi piace osservare. Soffermare lo sguardo su un volto, l’incedere di un passo sull’asfalto, il suono di una lingua sconosciuta. Mi sento estranea e straniera, in un quartiere ormai multietnico, che ai più crea disagio e intolleranza, a me suggestione e curiosità.

Mi piace curiosare tra i banchi del mercato, che propongono ortaggi e frutti esotici. Appesi a stampelle abiti colorati, sete e copricapi, che richiamano alla mente altri luoghi, altre culture.

Il palato assapora gusti diversi, carichi di spezie, l’olfatto fatica ad adeguarsi agli odori che albergano fra i palazzi, sotto i portici, negli androni, sulle scale. Eppure tutto ciò dà la sensazione di un’umanità viva e pulsante.

Mi riporta agli odori del sugo della domenica, degli arrosti con le patate e rosmarino. Il brulichio del mercato di San Lorenzo, quando andavo con mia nonna, che puntualmente si fermava a parlare con le amiche, mentre io sgranocchiavo un melograno. Gli abiti della festa, i signori che uscivano dalle pasticcerie con vassoi di pastarelle. E tutta quella umanità, che ora sembra perduta. I richiami dei vignaroli e l’odore della frutta di stagione. L’odore buono delle mele e delle arance.

Oggi sembra tutto più ordinato, meno caotico. Ma le mele hanno perso il loro profumo. Si è persa la tradizione delle pastarelle domenicali, perché fanno ingrassare. E gli odori dei cibi sono meno prepotenti, chissà perché.

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Rimuovere ciò che siamo

Interno poesia

paura libertà

Tutto questo sforzo per rimuovere ciò che siamo
un delitto premeditato da anni
dietro un volto sorridente
calcoli assoluti tra i fornelli e le stoviglie
lacrime trattenute per non spegnere l’incendio
che devasta il nostro dolore.

Chiedersi quale vita si sta vivendo
chi è la persona che ci guarda
mentre assonnati fissiamo lo specchio.

Impiccare il nostro corpo ad una sedia
morire da impiegati onesti
lasciare ai figli e alle mogli
il proprio testamento d’amore:

la foto di un ragazzo in costume
col volto tormentato dalla bellezza
la sua esistenza interamente compiuta.

© Inediti

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DIFETTO DI FABBRICA

la-gioconda-e-calva_blog

Si è seduto al mio fianco, al cinema, e i nostri sguardi si sono incrociati. Istintivamente ho portato la mano alla testa. Entrambi calvi. Io con la parrucca, lui che dignitosamente ostentava la sua testa calva. Un piccolo uomo calvo. Per quale motivo mi sono chiesta, perché anche lui? Ho pensato che il suo sguardo  fosse rivolto verso di me perché aveva trovato uno specchio in cui riflettersi.  Ma lui non poteva saperlo. Mi guardava sostenendo la mia curiosità, che solo io avevo la presunzione di immaginare legittima e diversa dalle altre. Ho pensato alla sofferenza che giornalmente lo accompagna, nel non sapersi riconoscere e a tanta altra sofferenza, che a me è stata risparmiata. Un adolescente che vive il tormento dei suoi anni, con la compagnia di ben altra malattia.  Mi sono sentita piccola e imbarazzata ed ho abbassato lo sguardo. Ho pensato a lui durante tutta la proiezione. Ho pensato a Elisa, la figlia di un collega, che dopo la chemioterapia è diventata calva ed è stata cambiata di classe perché una professoressa non riusciva a sostenerne la visione. La riportava troppo al senso del dolore, della malattia e aveva deciso che ciò avrebbe influito sul buon andamento della classe. Ho pensato che avrei tanto voluto avere il coraggio di farlo. Prenderlo per mano e olè! togliermi la parrucca e sostenere con lui gli sguardi altrui. Ma il coraggio mi è mancato, ho continuato a guardare il film. Mi sono sentita vigliacca nel lasciarlo solo, nel non essere stata capace di un gesto per me così dirompente. Ed ho immaginato che se l’avessi fatto, magari improvvisamente tutti avrebbero, finalmente, potuto tirar fuori la propria imperfezione, “la macagna”, il difetto di fabbrica che tanto ci rende diversi dagli altri, o che tali ci fa sentire. Quello che se non impari ad accettare e a giocarci ti preclude alcune semplici attività riservate a tutti, come farsi una bella nuotata al mare, senza dover necessariamente gettarsi nell’acqua gelida all’alba a spiaggia vuota … per non imbarazzare i vicini di ombrellone.

 

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FUFI FOLLETTO

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Fufi è un folletto che gioca con le pietre. Un folletto gioioso, che quando ti guarda penetra in profondità con il suo sguardo dolce. Fufi ha un abbraccio accogliente e colorato, una voce fanciulla e rilassante. E’ un folletto energico e promettente magie.

Sabato scorso con passo deciso, ci ha condotti attraverso una Roma calda e assolata, come un pifferaio magico, che con note suadenti induce i topini a seguirlo verso una meta non ben definita.  I topini arrancano dietro il pifferaio, che incede speditamente, senza indecisione e incertezza, portandoli alla scoperta di reconditi misteri, che si celano nella città eterna. L’itinerario si snoda tra la Porta Magica di piazza Vittorio, la Basilica di Santa Maria Maggiore, tra rovine romane e meravigliosi scenari. I topini seguono estasiati ed entusiasti il loro pifferaio, ormai certi che nonostante l’umidità abbia raggiunto il 90%  e i vestiti  siano diventati cenci appiccicosi, nonostante due autobus colmi di umanità e umori, la meta promessa non possa davvero disattendere le loro aspettative.

Senz’altro il luogo deve essere magico, all’altezza del pifferaio. Piccolo e geniale folletto che si aggira tra le sue pietre, raccontando per ognuna di esse una storia fantastica e fantasiosa. Così che agata, corniola, celestina, ambra diventano nell’immaginario di chi ascolta, principesse accerchiate da re, regine, draghi e castelli.

Ancora un autobus, che arranca su per la salita del Gianicolo, lasciando i topini, che pure conoscono bene lo scenario,  a bocca aperta, attaccati al finestrino, che si esaltano dopo ogni curva per il paesaggio che si apre, su tetti, cupole, terrazze. Il Fontanone merita una visita, ma il tempo incombe. Il nostro pifferaio ci induce ad affrettare il passo, l’evento sta per accadere! E improvvisamente il pifferaio, la Fufi folletto, si affretta a prendere posto. Come i bambini si posiziona nella zona più vicina, quella che crea eccitazione e aspettativa. Ed io lì, con gli altri topini, a godermi sotto un sole ormai davvero fastidioso, la faccia divertita ed estasiata del mio pifferaio, che applaude allo scoppio del cannone di mezzogiorno .. pochi attimi dopo suonano le campane di Roma …

Come non amare Fufi folletto. Come non sentirsi partecipe di questo evento giocoso, gioioso e fanciullesco. Improvvisamente mi trovo a pensare che in effetti mai nella vita ero arrivata su al Gianicolo per assistere alla cannonata di mezzogiorno. Mai avrei immaginato di trovarmi a correre spedita per le strade di Roma per un evento che per me non ha mai avuto granché importanza. Ma l’entusiasmo, quando è vero e sincero è contagioso. Guardare Fufi sorridente come una bimba, battere le mani, mi ha riempito il cuore. Questa era la sorpresa, questo era il suo regalo.

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STORIA DI UNA SCATOLA

SCATOLA

 

Un pacchetto si confeziona con scatola, carta da regalo, fiocco o nastro. Si può confezionare anche senza scatola, solo con la carta da regalo.  Oppure solo con la scatola, perché regalo non è. Se fosse un regalo sceglierei una carta carina, colorata, che secondo me entri in risonanza con la persona per cui lo sto confezionando. Ma è la prima volta che confeziono un pacchetto per chiudere un capitolo della mia vita e credo che la scatola senza troppi orpelli sia la soluzione giusta.

Ci pensavo da un po’. Alla fine sono entrata alla posta ed ho comprato una scatola gialla, pratica da montare, fornita di pecette adesive per chiuderne i lembi e con gli spazi predisposti per scrivere il mittente e il destinatario. Mentre l’acquistavo mi chiedevo se avesse davvero un senso rinviare al mittente oggetti, libri, cd che avevano avuto la loro importanza, perché legati a momenti particolari. Mi domandavo se fosse  un comportamento troppo puerile. Mi dicevo anche, che sarebbe stato sufficiente prendere tutti  quegli oggetti e gettarli via. Ma non sarebbe stata la stessa cosa, non per me.

Comprare la scatola, inserirci dentro le cose, confezionarla, spedirla, sottolineava la voglia di passare oltre, il desiderio di evidenziare con i gesti la decisione presa. Imballare la scatola con lo scotch, avrebbe dato il giusto peso a quello che stavo facendo;  chiudere per non riaprire. Se avessi gettato quegli oggetti nel bidone della spazzatura li avrei resi insignificanti, Ma così non era. Avevo ben chiare dentro di me le emozioni, i sentimenti che avevano suscitato ed avevo altrettanto chiaro che tutto ciò era ormai impossibile da ritrovare. Ho consegnato la scatola allo sportello, senza esitazione. L’impiegato mi ha chiesto cosa ci fosse dentro, ho risposto oggetti usati e avrei volentieri aggiunto usurati dal tempo e dalla stanchezza.

Spero che il destinatario ricevendola abbia chiaro il messaggio. Non importa che sia lui a gettare tutto via, senza neanche aprire la scatola. E’ una consegna senza ritorno al mittente, perché a volte nella vita occorre avere il coraggio di non tornare indietro.

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LA RABBIA

rabbia

L’altra sera non ne voleva sapere di uscire. La sentivo falsata dalla presenza ingombrante della testa, che non voleva saperne di tacere. Avvertivo lo sforzo della ricerca, ma rimaneva nascosta, guardinga nella pancia, nel cuore, nello stomaco. La mia “nota” non c’era. Il suono che emettevo non mi rappresentava. Perché quel sentimento arrogante, prepotente, tracotante, proprio non riuscivo a volerlo sentire mio. La rabbia. I pensieri la mettevano a tacere, la vergogna la frenava ad uscire. Ma lei c’era, educatamente, abituata com’è ad essere vilipesa e inascoltata, stava lì, aspettava. Il corpo sì che l’avvertiva. La tensione al collo, alla schiena, quel suo scalciare come un neonato per ricomporsi nell’attesa. La voce continuava ad uscire inconcludente, senza spessore.

Ieri è arrivata, con la sua potenza, rompendo gli argini del silenzio. Allora non l’ho fermata più. Le ho detto “vai, esci fuori, è giusto, sappiano finalmente che tu esisti. Riconosco che mi appartieni.”  Perché la rabbia è potente come l’amore. E come l’amore non apprezza i compromessi, se non necessari, non si lascia abbindolare dalla falsità delle parole. E’ primitiva, esprime la sofferenza, l’angoscia, l’impotenza, l’umiliazione. Spesso si stanca di aspettare e allora si ritrae. Si blocca per educazione. Ma quando la si umilia, quando la si accusa ingiustamente delle incapacità, delle falsità altrui, lei si incazza, molto. In quel momento ho trovato “la nota”, un grido, un unico potente grido, pronto a rivendicare la mia presenza, il mio essere, i miei sentimenti calpestati. E insieme a lei sono usciti il rancore, il rimorso, la delusione profonda e incontenibile, di fronte alla pochezza dell’altro. La benda cade. La rabbia sgorga. Esce, esce all’improvviso. Sembra dirti “perché mi hai messa a tacere? per chi? per cosa? Mi hai lasciata crescere dentro, come un bubbone doloroso. Ed ora eccomi, ci sono, ci sei, anche questa sei tu. E non per questo ti amerai di meno, anzi, ti chiederai perché non averlo fatto prima.” 

La sensazione che ha accompagnato il dopo è stato un senso di smarrimento, di affanno nel respiro. Come quando si arriva sulla vetta della montagna, e l’ossigeno entra a fatica nei polmoni. Ma tu sai che hai fatto la cosa giusta. Che quel valico andava scavallato. La salita è compiuta. Ora non puoi che riprendere a scendere, lentamente, dando nuovamente il giusto ritmo al respiro.

 

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Roma

Un grazie di cuore ad Aurelio per aver condiviso con me e i miei amici questo splendido omaggio a Roma. E’ anche un piccolo omaggio introduttivo alla guida ribelle e non omologata di due carissime amiche … anche se in realtà bisogna dirlo gli autori sono quattro. Spero vi venga la curiosità di leggerla … e di conoscere la parte ribelle di questa città.

 

LaChimicaDelleLettere

Parla con la voce del gabbiano, con il rullare delle macchine sui sanpietrini, con le corde di una Fender che suonano sotto un pino, Roma.
Parla col vento che si scalda al sole, giocando con l’ombra delle vie traverse, con la faccia convulsa dei turisti e quella di altri, semplicemente persa in questa anaconda di acqua bionda, che accarezza le rive, fino al mare.

Ascolta, o almeno provaci, il racconto di queste pietre nere, levigate dai miliardi di suole che hanno visto passare, e il malinconico lamento di quelle antiche, mentre il traffico di auto e carne si intasa, si stappa, si annoda.
Ascolta il battito della gente buona, che da ste parti ce ne sta tanta, e pure er modo strano che c’hanno de parlà. Nun parlano de lingua, de gola o de panza: parlano de core. Impossibile non capilli, impossibile non voler bene al mondo intero, quando passi…

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I NOSTRI RAGAZZI

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Quante volte di fronte a fatti di cronaca ci siamo detti “a me non accadrà mai”. Quante volte ci siamo sentiti giudicanti di fronte ad un fatto, che ci ha disturbato emotivamente e ci ha messo nella condizione di giudicare,  perché ritenuto senza alcuna possibile attenuante.  Ognuno di noi ha dei principi, dei valori, dei sentimenti che siamo pronti a difendere con forza. Siamo profondamente convinti,  che le persone che ci sono più vicine non possano essere troppo distanti da ciò in cui crediamo e che nulla e nessuno potrà mai portarle a commettere un crimine,  che ai nostri occhi possa apparire aberrante e indifendibile. Ma se improvvisamente un giorno scopriste casualmente, accidentalmente, che proprio la persona a voi più cara, abbia commesso uno dei crimini più brutali? Qualcosa che la vostra mente rinnega e di fronte alla quale la vostra coscienza urla, cosa fareste? Perché nel film questo accade. Un figlio commette un crimine, brutale, inaccettabile, ignobile. Anzi i figli sono due, due adolescenti, cugini. La madre del ragazzo, nega, appellandosi al proprio inconscio, mettendo a tacere tutti i dubbi per ammettere con forza a se stessa , che proprio non può essere andata così. Voi sareste capaci  di guardare in faccia la realtà, di  immergervi nel dolore, o preferireste negare tutto, passandovi sopra un colpo di spugna per continuare a vivere? I protagonisti ci propongono situazioni e soluzioni diverse. Ognuna a suo modo dolorosa. E il dolore sovrasta anche chi guarda, perché l’immagine che vi siete fatta dei  personaggi coinvolti, viene stravolta dagli eventi. E allora anche voi potreste avere la sensazione di esservi sbagliati, e vi sentireste confusi nell’aver giudicato per stereotipi. I protagonisti vi trasmetteranno il dolore, ma soprattutto la paura del fallimento. Dover ammettere a se stessi che non conosciamo chi abbiamo vicino e che abbiamo avuto solo la presunzione di conoscerlo, perché non abbiamo saputo tener conto dei tanti avvertimenti di disagio, di allontanamento non è facile da  accettare. Perché relazionarci con chi amiamo, vuole dire anche assumersi la responsabilità di essere presenti, senza passiva condiscendenza per non affrontare la realtà. Vuol dire saper leggere i piccoli dettagli che richiamano e richiedono la nostra presenza. Vuol dire non abbassare lo sguardo quando si percepisce che qualcosa non va, esorcizzando i dubbi, le paure, i sospetti, nascondendosi dietro un reality in cui scorrono le immagini e le storie di altri, semplicemente dicendoci  appartengono ad altri e non a me. Non si possono esorcizzare le proprie paure osservando i fallimenti altrui, perché il coraggio viene a mancare proprio quando dobbiamo dichiarare il nostro fallimento ed è terribile. Dopo aver visto questa storia che scorreva sullo schermo, in cui non potevo fare a meno di sentirmi partecipe con i protagonisti, sia i genitori che i ragazzi  mi sono chiesta “e io?”. Sono capace di ascoltare il dolore, il disagio che mi viene comunicato senza parole? Sarei capace di sostenere il senso di fallimento se  si presentasse così prepotente e inatteso? E sarei capace di guardare in faccia la realtà, assumendomene la responsabilità,  se ciò comportasse un dolore enorme e il risentimento di chi mi sta a fianco, anche se fosse l’unico modo per  salvarlo da se stesso? Quei ragazzi che avevano vissuto tutto senza coscienza, senza consapevolezza, come se fosse l’ennesimo video carico di violenza che scorreva sul monitor del loro computer, appartengono solo alle imamgini di uno schermo, che rende sempre tutto così irreale e lontano?

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CANTO ARMONICO

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                                                   (Lisa Gerrard)  

Cosa è il canto armonico? Come spiegarlo… È un’esperienza mistica in cui si incontra la propria voce. Quella voce che proviene dall’anima. Quella voce inascoltata e inespressa, che improvvisamente esplode in un suono sconosciuto e potente. È qualcosa che ti scuote dal profondo, che fa vibrare il corpo. È qualcosa che se ti lasci andare, va alla ricerca di note insospettate. È la scoperta di una parte di te che si esprime con energia e meraviglia.

Tutto ciò è avvenuto una sera d’estate in una villa romana,  all’ora del tramonto, con un gruppo di persone sconosciute  sedute in cerchio e magicamente condotte da un maestro, che della propria voce ne ha fatto uno strumento. Tutto ciò è avvenuto dopo aver cercato il silenzio, l’intima compagnia con se’ stessi. Tutto ciò è avvenuto e improvvisamente ho percepito la suggestione nell’ascoltare  le voci del gruppo che si intrecciavano, si sovrapponevano e creavano suoni nuovi, armonici. Voci che unendosi le une  alle altre creavano  qualcosa di profondo e inseparabile.

In un altro periodo della mia vita sarebbe stata un’esperienza che mi sarei negata. Per pudore, vergogna, per senso di inadeguatezza. Invece, da semplice “osservatrice” che sarei dovuta essere, mi sono lasciata andare e mi sono unita al coro. La vergogna si è dissolta di fronte ad una parte di me sconosciuta, che esprimeva rabbia, dolore, gioia di vivere e che ha intonato un canto, neanche troppo stonato, al sole che tramontava.

Caso mai vi trovaste a provare, la sensazione che vi resterà dentro sarà la risposta a ciò che a parole non sono riuscita ad esprimere.

 

 

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PARRUCCA – 2

Leone_con_parrucca

Molti si saranno chiesti perché uno degli articoli si chiamasse “Parrucca 1”. Ebbene perché ha un seguito … Dopo quasi un anno che indossavo la parrucca, sempre la medesima, mi sono un po’ scocciata. Considerando che da sempre mi piace giocare con me stessa, guardarmi allo specchio e vedere riflessa sempre la stessa “infedele”immagine di una me, che a mala pena cominciavo a conoscere e ad accettare, mi è sembrato di una staticità insostenibile.

Una sera mentre sono a cena con una carissima amica, le racconto che avrei voglia di cambiare, di giocare un po’ di più, ma  le parrucche costano. Ho provato con i cappelli, i turbanti, ma non riesco a portarli con disinvoltura. Lei mi dice che una sua amica, che purtroppo si era dovuta sottoporre alla chemioterapia, per un periodo ha dovuto indossare la parrucca. Anzi ne aveva comperate una collezione, poiché aveva trovato un negozio dove costavano davvero molto poco. Ovviamente non di altissima qualità, ma accettabili, soprattutto se l’intento era quello di voler ogni tanto cambiare look. Mi dice che mi fornirà l’indirizzo appena possibile.

L’indirizzo arriva il giorno dopo su whatsapp. Controllo su google maps dove è ubicato il negozio, e visto che nessuna amica o amico a breve era disponibile ad accompagnarmi, decido di andare da sola all’uscita dal lavoro. Raggiungo il negozio e arrivata lì, controllo perplessa il numero civico. Non c’è alcun dubbio è esatto… Telefono alla mia amica “Scusa mi confermi l’indirizzo per favore?”  L’indirizzo viene confermato. “Hai idea dove mi trovo? Sono di fronte ad un sexy-shop, con degli articoli in vetrina inequivocabili, un bar con tavoli fuori pieno di turisti che sorseggiano bibite al sole, che si affaccia proprio davanti … ” e lei mi risponde “Lo so, ma fidati dentro ha tante parrucche, e lui (lei?) è molto disponibile”.

A quel punto immagino la scena. Io entro, mi guardo attorno, e poi candidamente dico “Salve! vedo che ha tanti articoli interessanti sui quali mi soffermerei volentieri, ma vede io sono qui per le parrucche. E non perché mi occorrano per travestirmi, per scena o per cavoli miei, ma perché sono calva ….

Mi sono detta “Sono pazza, non ce la farò mai!  Immagina le risate di quello quando glielo dico!”. Poi ho pensato che uno che gestisce quel tipo di attività di richieste particolari deve averne sentite tante, e quindi perché si sarebbe dovuto scandalizzare proprio della mia! Insomma, in vetrina c’era di tutto un po’, la mia richiesta sarebbe stata decisamente banale rispetto a tante altre. Ho deciso. Entro!  Più o meno è andata proprio così. Ho chiesto di vedere delle parrucche. “Ha già un’idea?” mi ha domandato. Ed io “No, sono una calva novizia o poco più. Anzi gradirei suggerimenti”.

Così, mentre entravano le persone più disparate, con le idee decisamente più chiare delle mie su cosa chiedere e su cosa erano venute a cercare, il proprietario, ha tirato fuori la collezione di parrucche, dando suggerimenti su taglio, colore, frangia, manutenzione ecc.ecc. Insomma dopo un’ora di conversazione, in cui ho scoperto che il proprietario era davvero una persona carina, disponibile e anche un po’ filosofo, sono uscita con due parrucche. Una scura, capelli lunghi e l’altra, decisamente troppo divertente per perderla, capello corto stile Nikita,  rosso fuoco.

Le parrucche non hanno avuto un grande utilizzo. Anche se mi riprometto di andare e magari con più calma e serenità, trovarne una più adatta. In ogni caso quest’esperienza mi è servita. Mi sono messa in gioco in un contesto che non avevo preso in considerazione, senza però inventarmi nulla, presentandomi per quella che sono. E vi posso assicurare, che lì in quel negozio, mi sono sentita accolta e capita più che in altre situazioni. Certo i trans che entravano mi guardavano inizialmente con curiosità (vedi Liviano hai ragione, è solo una questione di punti di vista!) ma poi erano tutti molto gentili e simpaticamente partecipi. E’ servito per rompere il ghiaccio, scongelare me stessa, se volete. E in situazioni tali, o decidi di metterti in gioco e sfoderare tanta autoironia, oppure è meglio che lasci stare. Perché quello che volevo evitare (e il rischio c’ era) era quello di presentare una me patetica, afflitta e triste.  Certo triste lo ero, arrabbiata anche. Ma a cosa sarebbe servito lì, raccontare della mia rabbia, della mia delusione di fronte alle cure che proprio non cambiavano “un capello” alla situazione? Sono andata lì per giocare. E se le altre per vedersi diverse entrano nei camerini a provarsi i vestiti, io entro nei camerini, seppure di un porno shop, a provarmi le parrucche.

 

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ONDA D’URTO – C’ERA UNA VOLTA

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Si può resistere al fascino del mondo delle favole? e se ci sommiamo l’arte circense, quella vera con i funamboli? macchinari scenici in movimento? costumi fantasiosi e colorati, musica, effetti pirotecnici … cosa immaginate possa uscire da un mix simile?! Uno spettacolo in cui ritroviamo tutti gli elementi che ci incantavano da bambini, quando ascoltavamo rapiti e silenziosi il racconto di una favola. Qui vi è una rilettura splendidamente interpretata, con ironia, simpatia e bravura di tutti gli attori. Ho riso, partecipato con sorpresa agli effetti scenici che si sono susseguiti sul palco. Mi sono ritrovata bambina (è pur vero che mi ci vuole davvero poco …) di fronte alla rappresentazione di quello che la mia fantasia all’epoca aveva visto scivolare su uno schermo immaginario.

Lo spettacolo era previsto solo ieri sera, nell’ambito di una manifestazione di 4 serate. La compagnia “Onda d’urto” sta portando lo spettacolo in tournée,  in giro per l’europa e a novembre oltreoceano. Lo spettacolo si chiama “C’era una volta”. Il costo del biglietto era inferiore all’ingresso di un cinema 5,00  euro. Pubblico ce ne era, ma mai quanto avrebbero meritato. Anche io l’ho saputo per passaparola, e così l’ho pubblicizzato. Semmai vi capitasse di incrociare un loro spettacolo, andateci. Meritano davvero tanto, sono bravissimi. E magari per un momento tornerete i bambini che siete stati.ineuroff

 

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LIVIANO OROLOGIO

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Non so se vi è mai capitato di entrare in una stanza ed avere l’impressione che gli oggetti parlino. Questo è quanto è accaduto quest’estate, entrando nella sala di una mostra dedicata a Orologio Liviano. Gli oggetti utilizzati da Liviano, a cui è riuscito a dare una personalissima interpretazione, da banali e piuttosto anonimi, mi sono parsi vivi e capaci di trasmettere una strana suggestione. E’ la magia che di solito si verifica di fronte agli oggetti sui quali abbiamo impresso ricordi ed emozioni. Solo che in quel caso le emozioni provenivano dall’esterno, dalla capacità di rendere un paio di vecchie scarpe qualcosa di più, di colpire allo stomaco guardando un manichino con una pietra conficcata nel cuore,
un orologio che riesce a trasmettere il senso del trascorrere del tempo, due teste stilizzate che canalizzano la passione e l’intimità degli amanti. Mi sono persa seguendo le immagini che si susseguivano nella sala, le didascalie a volte ironiche, a volte pensieri che si sono impressi nella mente. Ora che ho aperto il blog, nella scelta dell’immagine che potesse rappresentare il mio “gravatar” ho scelto una sua opera.

Banalmente qualcuno penserà che l’abbia scelta per la testa calva. Forse un motivo potrebbe essere quello, ma il motivo principale è che quella testa chiusa e compressa da un coperchio mi ha fatto pensare a tutto ciò che non ci permettiamo di essere. A tutte le emozioni, i pensieri che reprimiamo e che copriamo con un massiccio coperchio perché non emergano. E ogni giorno lentamente moriamo, come nella bellissima poesia di Martha Medeiros “Lentamente muore”. Sono grata a Liviano per avermi concesso l’utilizzo dell’immagine, e gli sono grata per aver condiviso le sue emozioni attraverso le sue opere.

SAMSUNGALBA E TRAMONO LIVIANO OROLOGIO

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IL SILENZIO – QUORLE

 

silenzio

L’altro giorno ho letto il profilo di un blogger: “narratore di silenzi”. Ho trovato questa definizione bellissima. Ci sono tanti “riempitori di silenzi”, a volte anche piuttosto fastidiosi. Ma un narratore di silenzio … può essere solo colui che ne ha scoperto l’essenzialità. Quel momento di intimità con se stessi e con l’altro, così intenso da non richiedere parole.

Abbiamo così tanta paura del silenzio. Ci imbarazza se si fa spazio in una conversazione. Ci disturba perché ci fa sentire soli. Ci sembra inadeguato se siamo in una stanza con altre persone. Ci sembra intollerabile quando proprio le parole non vogliono uscire. Ci perseguita quando non vorremmo pensare. Ci molesta quando siamo tristi. E se improvvisamente scoprissimo quanto sia importante il silenzio. Quanto ci aiuti ad ascoltare la parte più profonda e più intima di noi stessi. Se scoprissimo che il silenzio ci aiuta a vedere cose che non vedevamo.

Degli incontri a tema condotti dal Dr.Lombardozzi, uno  era dedicato a  “Il silenzio”. Cosa avrebbe potuto dire di così interessante? Avrei quasi rinunciato, se non fosse stato per il fatto che avevo promesso all’amica di andare. E improvvisamente per la prima volta di       fronte ad un narratore di silenzi mi sono innamorata di lui, il silenzio. Ho cominciato ad apprezzarlo, a cercarlo, ad affezionarmi alla sua “presenza”. A comprendere quanto nella mia vita mancasse e fosse necessario.

Nel silenzio ho trovato le parole per parlare a me stessa, per tirare fuori la rabbia e la tristezza che mi accompagnavano. Per comprendere che c’erano e che era inutile li sommergessi sotto fiumi di parole, perché loro c’erano e stavano là comunque. Mi sono ascoltata e capita più nel silenzio, che nelle sedute fiume con la psicoterapeuta.

Ho capito l’essenzialità del momento. Unico e così tanto disprezzato. E poi un giorno navigando in internet ho trovato lui, Wolfgang Fasser. Profondo conoscitore dell’animo umano e delle sue esigenze, che a Quorle ti accoglie dolcemente, senza chiederti perché sei arrivato lì, proprio lì e proprio in quel momento. E ti conduce per mano alla scoperta del silenzio, condividendo con te e con altri che come te sono approdati a Quorle, momenti di silenziose passeggiate nei boschi, e momenti di condivisione di vita quotidiana e di ascolto.

Le parole sono importanti, altrimenti non starei qui a scrivere, ma i silenzi lo sono altrettanto. E non hanno nulla a che vedere con lo stupido gioco che ci imponevano a scuola le maestre, quando proprio non sapevano e non volevano più dire nulla. Il silenzio parla, più di quanto possiate immaginare. Wolfgang ci aveva avvisati. La strada del ritorno a casa non sarà uguale a quella percorsa per arrivare qui, e non perchè per arrivare l’avete fatta in salita e andando via la farete in discesa. Ma perchè semplicemente avrete con il silenzio appreso qualcosa di voi che si rivelerà, presto o tardi, si rivelerà.

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(Eremo di Quorle )

 

 

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Per dieci minuti – Chiara Gamberale

  
“Dieci minuti al giorno. Tutti i giorni.
Per un mese.
Dieci minuti per fare una cosa nuova,
mai fatta prima.
Dieci minuti fuori dai soliti schemi.
Per smettere di avere paura.
E tornare a vivere.”
 
 
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Scrivere la recensione di un libro è una cosa difficilissima! L’ho scoperto proprio ora! Non mi ci ero mai cimentata e la tentazione di scopiazzare dal testo del compagno di banco bravo e brillante c’è stata. Ma, a parte il fatto che allora varrebbe la pena suggerirvi di leggere l’originale, il mio intento  citando il libro,  non era quello di dare un giudizio su quanto scritto, o farne un riassunto, ma di indurvi a leggerlo e a riflettere sulla proposta fatta a Chiara Gamberale dalla psicanalista, richiamandosi ad un insegnamento di Steiner.

E’ pronta a fare un gioco?

E la mia provocatoria domanda  è “siete pronti a mettervi in gioco?” Siete pronti, proprio nel momento in cui arriva la mazzata più grande della vostra vita tra capo e collo, quella inattesa, favolosa mazzata, insomma siete pronti a giocare? A voler trovare un modo nuovo, fuori dai soliti vecchi schemi, per giocare con voi stessi, con la vita, con gli altri?

La parte più difficile è iniziare. Lasciarsi andare. E questo spesso avviene proprio quando ormai percepite di essere davanti ad un bivio che impone una scelta. Continuare la corsa verso il baratro o provare a dare una sterzata per evitare di precipitarvi dentro. Il problema è che noi adulti non siamo abituati a giocare. Prendiamo tutto molto seriamente. Ci cimentiamo solo in quello che pensiamo ci piaccia e faccia parte del nostro mondo. Spesso critichiamo e giudichiamo prima ancora di sapere di cosa si tratta. Annulliamo la curiosità. Ricordate da bambini quando ci proponevano un gioco nuovo? Ricordate l’eccitazione e la voglia di scoprire di cosa si trattava? Vi sareste mai rifiutati a     priori di sperimentare ciò che l’amico/a vi proponeva? E allora perché da adulti ci si chiude nel rassicurante mondo conosciuto, rifiutando di sperimentare con fare giudicante tutto ciò che riguarda l’altro? Quel famoso altro che riteniamo sia così distante da noi senza aver neanche osato avvicinarlo e capirlo?

Sembra un’impresa impossibile trovare una cosa nuova da fare per dieci minuti ogni giorno, ma è meno impossibile di quanto sembri. Basta volerlo.

E poi non credo sia importante che accada tutti i giorni, ma ci si deve predisporre mentalmente ad accettare il nuovo, i cambiamenti. Allora forse si comprende meglio perché inzialmente sia necessario che  si prenda come un esercizio da eseguire giornalmente. E’ necessario che si educhi la mente. E’ necessario che diventi una piacevole abitudine, il dedicarsi a se stessi, a sperimentare, a scoprire anche l’altro, per arrivare a scoprire un nuovo se stesso.

Vi andrebbe di raccontare qualcosa di analogo avvenuto nella vostra vita ?

Io potrei raccontarvi di tutte le “strane” esperienze fatte in questo ultimo anno, di tutte le persone incontrate e di quanto mi abbia aiutata entrare anche solo un momento, quei famosi dieci minuti, a far parte del loro mondo. Delle sorprese ricevute, della fatica iniziale nell’abbattere le resistenze di fronte al nuovo. Di quanto ci si scopra curiosi e di quanto questa curiosità ci spinga sempre più in là, a voler conoscere. Perché conoscere vuol dire conoscerci. Conoscere una parte di noi che c’è, c’è sempre stata, è cresciuta con noi e l’abbiamo messa a tacere. Che peccato! E’ sconcertante e meraviglioso scoprire la parte di noi che non conosciamo. Giochiamo vi prego, non mi abbandonate in questo meraviglioso gioco. Impareremo a giocare con noi stessi e con la vita. I problemi ci saranno, ma magari impareremo ad affrontarli diversamente.

 

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Parrucca – 1

parrucche_01_uma_thurman_photogallery            LA PARRUCCA 

(Uma Thurman – Pulp Fiction)

Indosso la parrucca, ormai è un anno che funge da mia compagna e da mia complice.

E’ stata dura come scelta, all’inizio non riuscivo a decidere e non riuscivo ad accettarla come condizione.  Ma non avevo neanche il coraggio di affrontare la situazione per trovarne un’altra.

Non accettarla avrebbe significato tanti sguardi, tante domande a cui non volevo sottopormi. Non ero in grado di rispondere, neanche a me stessa.

All’inizio si vuole credere che sia una situazione temporanea. Ma temporanea per quanto? E sarebbe stato davvero così? Cosa avrei fatto, mi sarei chiusa in casa aspettando che ricrescessero i capelli?

Mi ha accompagnata un’amica. Un negozio dove fanno parrucche da molti anni, molta professionalità e pazienza, ma ciò non cambia molto. E’ comunque difficile varcare la soglia del negozio. Non sei lì perchè vuoi giocare, ma per necessità. E mai e poi mai avresti pensato di doverlo fare, e di dover entrare in confidenza con un mondo così articolato e vario.

E’ una scelta difficile perché non si uscirà da lì come prima e difficilmente ti verrà restituita la stessa immagine. Ci si deve adattare ad una immagine diversa. Probabilmente colore, taglio, consistenza del capello saranno diversi. Ho cercato quella che mi stesse meglio, ma la mia immagine non è più la stessa. E’ come se un giorno si entrasse dal parrucchiere e si dicesse in preda ad una crisi d’identità “voglio cambiare tutto, mi faccia uscire da qui in maniera che anche mia madre abbia difficoltà a riconoscermi!”

Insomma mi aveva tanto affascinata Eva Kant con i suoi travestimenti, cos’era quella resistenza? Stavo giocando, che diamine!

Quello che ho capito con il tempo però,  è che spesso purtroppo quell’immagine ci accompagnerà lungamente. Perché quello che in quei momenti ci importa è coprire, camuffare una situazione, non farla apparire per non subire l’umiliazione di sguardi sospettosi. Quindi, lei, la parrucca, con il tempo diventerà parte di noi, una protesi irremovibile. Cambiare vuol dire saper giocare con se stessi e fregarsene delle domande degli altri.

Quando sono rientrata al lavoro, dopo un periodo di assenza piuttosto lungo, mi sono sottoposta mio malgrado ai commenti, ai giudizi, ai “come mai questo cambiamento?” ai “stai molto bene” (falsi!), a “come mai sono lisci, ma come hai fatto tu che sei riccia?”, ai “che splendido colore!” … le allusioni, domande scomode si sono protratte per giorni, con l’indiscrezione e la pruriginosa morbosità, che credo solo noi donne sappiamo avere. Il gossip in un ufficio è il diversivo alla noia e alla mortale consapevolezza che tutti i giorni ci alziamo e ci sbattiamo fuori casa all’alba per tornare al tramonto, spesso per fare un lavoro noioso  … quindi il tutto è seguito con “ma che bravo questo parrucchiere, perché non mi dai l’indirizzo ?”,  “ma quanto tempo perdi per rifare la piega la mattina? (la parrucca mantiene la piega, sempre o quasi sempre), “certo ora riprendere lo stesso colore, così bello, sarà un problema”.  Fin quando un giorno ho risposto malissimo mettendole a tacere. Tanto le domande nel tempo si sono ripresentate, e addirittura una collega con estrema sensibilità è andata dalla mia parrucchiera, che conosce e di cui è cliente, per chiedere se effettivamente il taglio me l’avesse fatto lei.

Se superate questi momenti, e non vi fate sopraffare dalla rabbia e dalla voglia di investire accidentalmente con la macchina qualcuna delle vostre conoscenti, ecco sopravviverete.

Alcuni suggerimenti:

  • Sceglietela sapendo che vi accompagnerà per lungo tempo, almeno fin quando non avrete imparato a giocare con voi stesse;
  • Sceglietela indossandola, solo così capirete se effettivamente vi piacete, se si adatta a voi, se la sentite parte di voi;
  • La parrucca ha un costo non indifferente, quindi è un investimento, che richiede manutenzione e attenzione;
  • Non è difficile da indossare, ma verrete colte da mille paure, che si sposti, che si noti. Verrà il momento di panico quando piove all’improvviso “oddio si bagna” .Verrà il momento di panico quando tira vento. Ci sarà il momento in cui si sposta e vi verrà la testa un po’ a pera …

Esagero un pochino. Ma le situazioni buffe capitano, e ci saranno momenti in cui inaspettatamente a persone estranee sentirete l’esigenza di comunicare il vostro stato.

Un giorno camminando con mio figlio, in pieno inverno, una domenica prima di Natale, quando la città convulsamente impazzisce, un’ape, l’unica stupida ape esistente proprio lì e proprio in quel momento, mi si è posata sulla testa. Percepivo che c’era, ma non riuscivo a vedere esattamente dove fosse. Mio figlio si è rifiutato di aiutarmi, asserendo “ho paura che mi punga!”. Un signore, vero galantuomo, avendo osservato la scena, si è prestato di cacciarla. Ha posato le sue mille buste in terra, e ha dato uno schiaffetto alla mia testa per cacciarla. Ecco io ho immaginato che la parrucca volasse via insieme all’ape. Che l’ape potentemente aggrappata se la tirasse dietro. Che mi scoperchiasse parte della calotta. Ho immaginato il mio imbarazzo e lo stupore del signore. Non è avvenuto tutto ciò fortunatamente. E quando il signore ha ripreso le sue borse, ho iniziato a ridere convulsamente, liberando la tensione.

Piccolo stupido aneddoto, ma purtroppo accade anche questo.

E accade che se andate in palestra e fate degli esercizi la parrucca si riduca una frittata schiacciata sulla fronte.

Voi direte “anche quando non hai la parrucca”, si ma le movenze per risistemare il tutto sono così poco spontanee, che alla fine, almeno fin quando non si capisce come fare, vi terrete la frittatina fino alla fine della lezione.

 

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