Questa estate, all’uscita della metro, c’erano due ragazzini che distribuivano dei foglietti. Ne ho preso uno e mi ha incuriosito lo stile semplice e scarno, che tanto ricordava i vecchi ciclostile. Mi sono fermata a leggere e probabilmente meno intimiditi dalla mia curiosità, si sono avvicinati. “Siamo della casa famiglia che è qui, nella piazza, a fianco alla chiesa. E’ un invito per la festa che faremo questa sera in terrazza. Abbiamo allestito uno spettacolo e ci farebbe piacere se venisse, anzi se venissero in tanti, ‘quelli di fuori’ per assistere alla recita”. Ho assicurato la mia presenza. La sera sono andata. Sulla porta di ingresso c’era un cartello di benvenuto e dei palloncini. Ad accogliermi un piccolo cucciolo d’uomo, molto compito nel suo ruolo, che mi ha condotta lungo le scale per raggiungere l’ascensore. Mentre salivamo annunciava a gran voce la mia presenza. “Padre Paolo ci sono gli ospiti (eravamo in due!), li accompagno di sopra”. La voce tradiva l’emozione e il suo bel viso curioso, contrastava con la spartanità degli arredi e quel colore bianco pallido, che rimandano le luci a neon. Siamo saliti in terrazza. Le sedie erano in parte occupate, ma dopo un po’ capivi, dalla familiarità con cui i ragazzi si rivolgevano al pubblico presente, che si trattava per lo più di operatori, di volontari e di familiari. Avevano organizzato dei giochi sul genere di quelli che immagini vengano proposti nei villaggi turistici. Al termine di ogni gioco il vincitore, o gli eventuali vincitori, ricevevano come premio un biglietto del cinema (molto ambito). Terminati i giochi è iniziato lo spettacolo. Non era una vera recita, era più simile ad un saggio di fine anno, con esibizione canora e ballo.
Credo sia stata una bella festa, anche se, nonostante io ce l’abbia messa tutta nell’applaudire e mostrare il mio entusiasmo, non sia stato sufficiente per smorzare la delusione per la scarsissima partecipazione di “quelli di fuori”. Le emozioni che si sono sommate in quelle poche ore condivise con loro, le porto ancora dentro. Come il ricordo di una bruciatura, piccola ma non innocua. I volti che ho conosciuto, i sorrisi e l’ilarità semplice e spontanea di quei ragazzi difficilmente la dimenticherò. C’erano anche bambini, piccoli. In particolare uno, paffutello, biondo. Durante un gioco cercava disperatamente degli oggetti da portare come “trofeo”, perché la gara prevedeva che venisse eletto vincitore chi riusciva a raccoglierne di più. Molti avevano il papà o la mamma, o il nonno, e per loro era più facile. Lui non aveva nessuno.
Ieri sera sono incappata nel bel racconto di Topper Harley. Mi ha affascinata la sua scrittura e ancor di più il tema del racconto “Essere bambini”. Leggerlo mi ha ricondotta alle emozioni che vi ho descritto e ho pensato che mi avrebbe fatto molto piacere voi lo leggeste.
Anche io non ho esperienza riguardo le case famiglia. Ho letto i commenti che sono stati aggiunti al suo articolo e alcuni li condivido appieno. Ma è pur vero che a volte basta poco per abbattere le barriere fra “quelli che sono fuori” e “quelli che sono dentro” e se questo serve per riconquistare il sorriso di un bambino penso ne valga la pena. Ovviamente mi sono chiesta cosa potrei fare per non restare solo l’osservatrice di una serata, la cui partecipazione ha fatto bene a loro, ma ancor di più a me, e credo sia solo questione di volontà e di un pizzico di coraggio.
Ho chiesto a Topper di poter pubblicare il suo racconto, sono stata autorizzata.
Vi consiglio di seguirlo sul suo blog http://www.topperharley.com.
Questo è il racconto postato il 31/10/2014 da Topper Harley, che ringrazio per la concessione.
” Quando ci raccontano di quel ragazzino che nemmeno per il suo compleanno ha visto la mamma, restiamo spiazzati. Nel silenzio della stanza abbassiamo gli sguardi per il tempo necessario a staccarci dalla realtà ed assorbire il disagio della notizia, forse anche scontata visto il contesto in cui ci troviamo ma non per questo meno cruda. Intravedo un paio di occhi lucidi che cercano invano una via di fuga. Del bambino sappiamo che vive là da mesi perché la madre non lo vuole più, o forse non lo ha mai voluto, e il padre non c’è mai stato. Hanno festeggiato il compleanno sperando che lei si facesse viva, dato che le era consentito, ma evidentemente avrà avuto di meglio da fare.
Lui è solo uno dei bambini ospitati in quella casa-famiglia e probabilmente è anche uno dei più fortunati. Vivono lì per mesi, a volte per anni, fino alla maggiore età, traguardo oltre il quale devono iniziare un nuovo percorso ad ostacoli, forse ben più ostico. La casa è una struttura magnifica, curata in ogni particolare, dallo stile rustico, circondata dal verde, con ambienti enormi, camere spaziose, tetti alti. E soprattutto un calore e un’atmosfera che sembrano fuoriuscire dalle pareti, dandole una parvenza di luogo animato, che respira, tipo le case dei film horror, se non fosse che l’horror stavolta è fuori e dentro è il rifugio da una vita ostile.
Di ragazzini, che chiamo così perché vanno dagli otto ai sedici anni di età, ne vediamo qualcuno in giro. Non ci vengono presentati perché non devono sapere che siamo lì per loro, non adesso almeno. Stiamo presentando un progetto che, se approvato, gli permetterà di vivere un’esperienza unica, lontana anni luce da ciò a cui sono abituati: una gita. Una cosa scontatissima per molti bambini tranne che per loro. Una sorpresa. Lavoriamo per regalargli una settimana in montagna da raggiungere viaggiando in macchina, insieme, con le pause pipì all’autogrill, le canzoni della radio, il sonno, gli scherzi. E poi l’arrivo, se va bene, dove ci sarà la neve, i giochi e, che so, i pupazzi, le battaglie, gli slittini improvvisati, forse anche un corso di sci. Saranno comunque loro a scegliere, a decidere cosa voler fare, per la prima volta da quando sono nati. I volontari della casa-famiglia sono già in fermento e anche noi. Ci proviamo, siamo fiduciosi. Stiamo già avviando la raccolta di attrezzature, scarpe e scarponi, tute, giubbotti e tutto il quanto possa servire per la partenza. Se ci daranno i fondi e io sono quasi certo che ce li daranno perché è la mia azienda che finanzia i progetti e faremo di tutto per far passare il nostro, incontreremo e conosceremo i bambini. Ci dedicheremo ai preparativi, giocando, senza troppo impegno perché è la spensieratezza che, prima di tutto, vorremmo gli fosse donata.
Personalmente non ho potuto non confrontare questa nuova avventura in cui sono stato felicemente coinvolto con quella che richiede l’impegno in Africa. Lì non hanno un grande futuro né molte aspettative, sia di vita sia di obiettivi a breve termine. Non sanno nemmeno che è il futuro e il presente è fatto di stenti, pochi stimoli e pochi svaghi, perché le giornate sono incentrate sulla ricerca del minimo per sopravvivere. L’unica cosa che però hanno quei bambini è il sorriso e, fino ad una certa età e certo non tutti, oserei dire proprio la spensieratezza. I bambini della casa-famiglia hanno altre esigenze. Materialmente possono avere tutto, vestiti, giocattoli, libri, computer; studiano, svolgono attività utili alla crescita, sono seguiti da chi vuole farli sentire normali e, in alcuni casi, anche da uno psicologo, vengono avviati ad una professione quando si avvicinano ai diciotto anni. Quello che gli manca e gli è sempre mancato è l’essere bambini, cosa che capita solo una volta nella vita e non si può recuperare perché poi si cresce e, se non hai imparato a ridere da piccolo, è difficile che tu possa farlo da grande.”
(dal blog http://www.topperharley.com)